Aggirandomi tra social networks e forum sono sempre
rimasto stupito dalla frequenza e dalla facilità con cui gli utenti della rete litigano
e si insultano tra loro, spesso utilizzando espressioni offensive e violente.
Di fronte a questo fenomeno, mi sono sempre chiesto
se i cybernauiti si pongano il problema delle possibili conseguenze giuridiche
di quei battibecchi solo (e sottolineo solo) apparentemente innocui.
Anzi, rigiro a voi la stessa domanda. Se e quando
avete insultato qualcuno su internet, vi siete posti il problema che quell’insulto
potesse essere foriero di conseguenze giuridiche?
Se la risposta è no, avete agito con leggerezza. Ma è
del tutto normale.
La rete, infatti, riduce di molto, fino ad annullare,
la percezione della realtà. Internet si presenta come un mondo parallelo, dove tante
persone, celandosi dietro pseudonimi e sentendosi protette dal fatto di essere
dietro ad uno schermo, commettono atti che probabilmente nella realtà non
farebbero mai.
Non è una questione di “fegato” (per usare un
eufemismo), è una mera questione di percezione (o meglio di mancata percezione)
della realtà e delle possibili conseguenze delle proprie azioni, quando vengono
commesse online.
Siccome, tuttavia, è solo una impressione e non
valgono, quindi, i principi della fenomenologia dello spirito, può accadere che
un bel giorno ci piova addosso una bella secchiata d’acqua, che ci riporta alla
cruda realtà.
E’ più o meno quello che è successo ad una ragazza
toscana, che, licenziata dal datore di lavoro, aveva ben pensato di insultarlo attraverso
la bacheca di un noto social network.
Il personaggio in questione ha presentato una querela
ed il risultato è stata, per la ragazza, una doccia gelata, che nel nostro caso
assume le vesti di una sentenza pesantissima, di quelle che fanno riflettere,
soprattutto in considerazione della sua portata applicativa.
Secondo la giurisprudenza del Tribunale di Livorno,
il post diffamatorio integrerebbe addirittura gli estremi del reato di
diffamazione a mezzo stampa, così di fatto equiparando la bacheca privata di un
fruitore di social network (per quanto privata possa dirsi ogni pubblicazione
sui social network) alla pubblicazione su un quotidiano o su un sito
editoriale.
La giurisprudenza ha messo sullo stesso piano la
capacità di diffusione e di danno all’immagine di un social network a quella di
un giornale oppure di una televisione.
E ciò a causa della loro capacità di diffusione
incontrollata.
Dopotutto la tesi, seppur con qualche precisazione, è
condivisibile, in quanto la pubblicazione di un post su social network ha
potenzialmente l'idoneità di entrare in relazione con un numero indeterminato
di partecipanti.
Ne è la prova il fenomeno del cosiddetto cyber
bullismo, vale a dire l'attività criminosa dei bulli da tastiera, i quali,
nascondendosi dietro lo schermo del monitor, non esitano a distruggere la
reputazione, l'onore ed il decoro delle proprie vittime, con risultati spesso
nefasti.
La percezione di ciò che è lecito e ciò che non lo è
nel mondo dell’etere è ad un livello bassissimo ed il passo tra gli insulti una
tantum ed il cyber bullismo è breve.
Sbagliano, quindi, i garantisti ad oltranza che
vedono nella sentenza in esame una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in
una gara all’ultima querela per diffamazione.
Ho letto commenti in cui si afferma che una siffatta
sentenza finirebbe per rendere Facebook un luogo di terrore, più che di piacere
e distensione.
Al di là del fatto che definire un social network un
luogo di piacere e distensione è alquanto discutibile, poiché, con tutto il
rispetto, non si può equiparare Facebook ad una spiaggia sulla costiera amalfitana.
Se poi per distendersi e rilassarsi ci si diletta a
distribuire insulti gratuiti, c’è qualcosa che non va.
In ogni caso al di là dell’aggravante “del mezzo
della stampa”, comunque questo tipo di comportamento integra il reato di
diffamazione, generalmente inteso, che punisce la condotta di chi
"comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione".
La reputazione, l'onore ed il decoro sono diritti
inviolabili ed indisponibili della persona e la norma penale non fa altro che
rafforzare la tutela già accordata dalla legge civile, proprio in
considerazione della loro importanza.
Pertanto, anche in ragione della gravità di questo
fenomeno che spesso sfocia nel cyber bullismo, ritengo (da cittadino) inopportuni
commenti ultra garantistici, poiché, se ci si comporta secondo le regole della
buona educazione e del rispetto reciproco (ricordarsi sempre di "non fare
agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso"), nessun
social network potrà essere reso "un luogo di terrore" da una
sentenza di un Tribunale.
La giurisprudenza non fa altro che cogliere i segnali
di allarme che provengono dalla società civile e, per imporre il rispetto di
principi indisponibili ed inviolabili della persona, ha riconosciuto
l'applicabilità della fattispecie più grave di diffamazione, vale a dire quella
a mezzo stampa ex art. 595 c.p. comma III (fino a tre anni di reclusione e multa
non inferiore agli € 516,00).
Sono il cyber bullismo e gli abusi di chi pensa di
avere il mondo in pugno nascondendosi dietro ad uno schermo a rendere il social
network un inferno.
E’ bene, quindi, sapere che, se si trova la persona
sbagliata, insulti, oscenità e espressioni lesive della reputazione scritti a
cuor leggero su internet possono costare molto cari.
Peraltro, quella del Tribunale di Livorno non è una
decisione isolata, in quanto precedentemente anche il Tribunale di Monza, in
una delle prime pronunce in tema di risarcimento per danni illeciti compiuti
sui social network, aveva stabilito un risarcimento di ben 15.000,00 euro in
favore di un soggetto risultato vittima di un messaggio diffamatorio tramite
Facebook, proprio rinvenendo in siffatte condotte gli estremi della
diffamazione a mezzo stampa.
L'unico tallone di Achille di queste decisioni è
rappresentato da una Sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2011, con
cui veniva data una definizione di "mezzo stampa" rilevante ai fini
dell'applicazione dell'aggravante ex art. 595 comma III c.p., da cui erano
esclusi forum e social network.
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