domenica 17 febbraio 2013

Dopo Forza chiara il caso Belen: cosa fare quando l'ex pubblica su internet foto osè e video hard - un nuovo capitolo della lotta al cyberbullismo ed alle vendette fai da te


Capita sempre più spesso che foto e materiale sensibile raffiguranti momenti intimi di una coppia vengano, a scopo di estorisione o semplicemente per vendetta, resi pubblici utilizzando la devastante capicità diffusiva delle nuove tecnologie e della rete internet.

Sempre più di frequente, peraltro, tale materiale ha come protagonisti minorenni.

Queste condotte configurano ad avviso di chi scrive una forma di cyberbullismo, che, come evidenziato nel precedente post, è un fenomeno degenerativo legato alla presenza sempre più capillare di connessioni internet e social network. 

Il cyberbullo, celandosi dietro nomi finti, alias e, soprattutto, dietro lo schermo del monitor, pensa di poter torturare impunemente le proprie vittime, con conseguenze anche gravissime sulla loro psicologia.

Con un semplice clic si rovina la vita di una persona, che ritrova suo malgrado i propri momeneti più intimi alle luci della ribalta.

Molti non sanno che questo tipo di condotte sono severamente punite dalla legge, e ciò a maggior ragione se i protagonisti sono minorenni.

Va ricordato che anche una persona minorenne, quand'anche apparentemente dall'aspetto adulto, è pur sempre minorenne e la legge punisce sia la diffusione (ad esempio, mediante software di P2P) sia la mera detenzione di materiale pornografico coinvolgente minori ai sensi dell'artt. 600-ter, comma 3, e 600-quater c.p. 

Quindi non solo chi diffonde, ma anche chi detiene, materiale raffigurante minori sicuramente incorre in primo luogo nelle sanzioni penali relative al contrasto della pornografia minorile.

Ma non disperino neppure gli EX a vario titolo (ex mogli, mariti, fidanzati, amanti etc...) che sono diventati involuti protagonisti di video o fotoshooting privati, perché in loro soccorso possono essere invocate le norme in materia di privacy e le norme penalistiche in materia di diffamazione, anche con l'applicazione dell'aggravante della diffusione a mezzo della stampa, per le ragioni che verranno meglio illustrate in seguito.

Tornano alla tutela apprestata dal Codice della Privacy, se è vero che al momento dell'acquisizione del dato sensibile (al momento, quindi, dello scatto fotografico o del ciak) il consenso c’era, è anche vero che non si può prescindere dalla finalità per cui il consenso si era formato ed era stato dato, soprattutto in considerazione della natura ultrasensibile dei dati relativi alla sessualità di una persona, che accetta di farsi riprendere in uno dei momenti più intimi nella sfera personale di un individuo.

Per tale ragione, la prestazione del consenso, peraltro solo verbale o per facta concludentia, fornito alla ripresa tra le mura domestiche, non implica che lo stesso possa essere implicitamente valido per eventuali step successivi, quale ad esempio la pubblicazione del video, che abbandona così le mura domestiche, per entrare potenzialmente in qualsiasi casa o in qualsiasi device connesso alla rete internet. 

In poche parole il consenso all'acquisizione delle immagini non opera per la relativa diffusione. 

Peraltro, il web in siffatti casi rappresenta un'arma a doppio taglio per il cyberbullo o per l'ex frustrato. 

Infatti, da un lato consente al materiale video o fotografico di diffondersi alla velocità della luce in tutti i continenti e di restare in auge per anni, in quanto la rete non dimentica ed il file osè rimarrà online fino a quando ci rimarrà in share (vale a dire in condivisione su peer to peer).

Dall'altro canto, tuttavia, una foto o un video pubblicati sul web, salvo accorgimenti ultratecnologici ignoti ai più, sono facilmente tracciabili, ragione per cui l'autore ed il detentore potranno essere  facilmente individuabili e perseguibili.

In secondo luogo, agli autori di tali condotte potrà essere generalmente contestato anche il reato di diffamazione, peraltro anche potenzialmente con il riconoscimento dell'aggravante di cui al terzo comma (diffamazione a mezzo stampa), per le ragioni evidenziate nel precedente post.

Sul punto, già con la sentenza n. 4741/2000 la Corte Suprema di Cassazione aveva avuto modo di affermare che l’utilizzo di un sito internet per la diffusione di immagini o scritti atti ad offendere un soggetto è azione idonea a ledere il bene giuridico dell'onore nonché potenzialmente diretta erga omnes e pertanto integra il reato di diffamazione aggravata.

Tale approdo motivazionale è stato successivamente confermato in numerose pronunce, con cui è stato affermato in eguale misura che la “diffamazione tramite internet costituisce un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p., in quanto commessa con altro mezzo di pubblicità.
 
E ciò perché già nel 2000 la Corte di Cassazione riteneva inaccettabile la creazione di una sorta di zona franca che renderebbe immune dalla giurisdizione penale il fenomeno del web.

Le pronunce in esame peraltro facevano espresso riferimento anche ai dati personali associati a immagini offensive per la loro natura erotica e vulneranti il proprio patrimonio ideale costituito dal diritto alla salvaguardia della dignità, onorabilità, riservatezza.

Salva in ogni caso l'assenza di responsabilità in capo al provider, a differenza di quanto avviene in materia di diffamazione a mezzo stampa, ove risponde penalmente anche l'editore.

La differenza risiede nelle prescrizioni contenute nella direttiva 2000/31/CE, attuata dal d.lgs. n. 70 del 2003.

Viene comunque ammessa la possibilità di procedere al sequestro preventivo dei siti internet laddove venga diffuso materiale diffamatorio, in quanto unico mezzo idoneo per scongiurare la reiterazione del reato. 

Pertanto, chi viene sbattutto in piazza in mutande e reggiseno nei suoi momenti più intimi ha un ampio ventaglio di strumenti giudiziari per farla pagare al cyberbullo o all'ex frustrato di turno.

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