E non poteva essere altrimenti in un paese a mobilità
ridotta ed a crescita pari a zero come l'Italia, un Paese che da anni mortifica
la propria gioventù, spesso lasciata a marcire senza sbocchi professionali e
con trattamenti economici il più delle volte da fame.
La Giurisprudenza lo ha detto per anni e lo ha ribadito
da ultimo anche con la Sentenza n. 11020/2013, con la quale ha respinto il
ricorso di un padre che chiedeva la diminuzione dell'assegno di mantenimento per il figlio
ultratrentenne, che non riusciva, incolpevolmente, a trovare una occupazione
stabile ed a raggiungere l’indipendenza economica.
La Corte di Cassazione, confermando le precedenti
decisioni in materia, ha, quindi, affermato
ancora una volta l'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei
figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., anche se questi sono maggiorenni.
Infatti, tale obbligo non può cessare - sic et simpliciter - automaticamente con
il raggiungimento della maggiore età, ma sussiste finché il figlio non abbia
raggiunto l'indipendenza economica per cause a lui non imputabili.
Al contrario, qualora il figlio si dovesse rifiutare
indebitamente di trovare una occupazione, preferendo bighellonare ed oziare,
perderebbe, per ovvie ragioni, il diritto al mantenimento.
L'accertamento sullo status di autosufficienza
economica del figlio, peraltro, deve essere necessariamente ancorato alle
aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-universitario della
persona ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico
riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria
formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale ed
economie familiari.
In poche parole, il figlio che aspiri ad essere un
chirurgo e riesca, nonostante gli sforzi, a trovare lavoro solo in call center,
con stipendi inadeguati, mantiene il diritto al mantenimento.
Infatti, la Corte di Cassazione ha da sempre espresso
il principio secondo cui il conseguimento di redditi, percepiti in via precaria
ed insufficiente, non comporta che il figlio abbia raggiunto la tanto
desiderata autosufficienza economica, ragione per cui l'assegno di mantenimento
può essere ridotto o revocato solo qualora provato che il l'occupazione
lavorativa è idonea ad assicurare al figlio, anche con riferimento alla durata
del rapporto in futuro, la completa autosufficienza economica.
Dopotutto è la stessa Legge a prevedere che il
giudice, valutate le circostanze del caso concreto, può disporre in favore dei
figli maggiorenni, non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno
periodico.
Tale assegno, salva diversa determinazione del
giudice, è versato direttamente all'avente diritto.
Deve essere, invece, revocato l'assegno di
mantenimento al figlio che non vuole lavorare, e ciò, naturalmente, anche se il
figlio rifiuti un lavoro non pienamente rispondente alle sue aspirazioni ed
agli studi fatti, ma idoneo ad assicurargli un futuro.
Alla luce di queste considerazione,
appare evidente come sia ancora una volta la giurisprudenza a dover leggere ed
interpretare le pulsioni e gli umori della società civile, dando risposte
concrete ai problemi irrisolti del nostro Paese.
Quello dell’assegno di mantenimento
del figlio maggiorenne è un problema che va ben al di là dei profili
antropologici tipici degli scontri generazionali.
In quella che sembra una lite
bagatellare tra un padre ed un figlio si sublimano, insieme, il disagio e le difficoltà
dei giovani italiani, a torto definiti bamboccioni, che non riescono a ritagliarsi, spesso non
per colpa loro, una dimensione aderente ai propri sogni ed alle proprie
ambizioni, rimanendo incastrati in una lunghissima adolescenza, in cui, a 30
anni, dopo anni di studi e di sacrifici, si ritrovano ancora a dover
dipendere da mamma e papà, che per tale ragione li devono mantenere anche da adulti.
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