Mk&Partners

Mk&Partners

mercoledì 27 febbraio 2013

Между веб репутацией и борьбой с киберпреследованием: оскорбления на Facebook могут Вам очень дорого стоять.



Решение суда, которое было принято осенью прошлого года, но обоснование его стало официально известно совсем недавно, является одним из тех, которое заставляет задуматься, особенно с учетом сферы его применения.

Многим из вас случается писать или читать на «стенах» социальных сетей фразы и заявления, содержащие оскорбления в адрес к кому-нибудь.

Итак, в соответствии с законодательством, диффамационное сообщение, непосредственно содержащее состав преступления (печатная диффамация), приравнивает личную стену пользователей социальных сетей к публикациям в печатных изданиях или на сайтах издательств (поскольку нельзя назвать личными все публикации в социальных сетях).

Суд Ливорно, действительно, поддержал доводы Прокуратуры Республики, которая приравняла способность распространения и вред репутации в социальных сетях к оным в журналах или на телевидение.

И это из-за их способности к неконтролируемому распространению. В конце концов, доводы, даже и с некоторыми пояснениями, не вызывают возражений, поскольку сообщения на стенах в социальных сетях потенциально могут быть видны неопределенному числу участников.

Это доказывается феноменом так называемых киберприследований, а именно преступной деятельности клавиатурных хулиганов, которые, прячась за экраном монитора, без колебаний наносят вред репутации, чести и достоинству своих жертв, часто с неблагоприятными результатами.

Впрочем, я до конца не согласен со сторонниками гарантирования конституционных прав граждан, которые видят в обсуждаемом вопросе бомбу замедленного действия, готовую взорваться в погоне за исками о клевете.

Я прочитал комментарии о том, что такое решение может превратить Facebook в место террора, а не в место, где можно расслабиться и получить удовольствие.

Помимо этого, назвать социальную сеть местом для расслабления и получения удовольствия несколько спорно, потому что, при всем уважении, Facebook не может быть приравнен к пляжу на побережье Амальфи. Следует отметить, что диффамация, как правило, наказывает поведение тех, кто порочил чужую репутацию в окружении большого количества людей.

Репутация, честь и достоинство – неприкосновенные права человека, и уголовное право усиливает защиту уже установленных норм Гражданского Кодекса, учитывая важность такого права.

Таким образом, с учетом тяжести феномена киберпреследования, я считаю неуместными замечания такого характера, потому что, если вы будете действовать в соответствии с правилами хорошего тона и взаимного уважения (первое правило Дорожного Кодекса и международного права «не делать другим то, чтобы вы не хотели бы сделать для себя»), никакая социальная сеть не будет «местом террора» в решении суда, который требует уважения к неподлежащим пользованию принципов и неприкосновенности человека, признавая применимость более серьезных диффамаций, т.е. печатной диффамации в соответствии со ст. 595 ч.III Уголовного Кодекса (до 3-х лет лишения свободы и штраф в размере свыше 516 евро).

Киберпреступления и злоупотребления тех, кто думает, что имеет весь мир в своих руках, скрывается за ширмой, и превращают социальную сеть в сущий ад.

Эти люди должны знать на будущее, что оскорбления, ненормативная лексика и оскорбительные выражения будут стоять дорого.

Тем не менее, решение суда Ливорно не является единичным. Суд города Монца, в одном из первых решений о правонарушениях в социальных сетях утвердил компенсацию в размере 15 000 евро в пользу жертвы диффамационных сообщений на Facebook, видя в таком поведении крайнюю печатную диффамацию.

Только Ахиллесова пята представляет собой решение Кассационного Суда в октябре 2011, о котором я уже говорил, с которым было дано определение «печатная диффамация» в соответствии со ст. 595 ч. III УК.

В любом случае, суд показывает путь, но Верховному Кассационному Суду остается последнее слово.

domenica 24 febbraio 2013

Ė reato il ricorso alla somministrazione di manodopera simulata daformale contratto d'appalto

Secondo la Corte di Cassazione, in tema di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, la distinzione tra contratto di appalto e quello di somministrazione di manodopera risiede tanto nella verifica della proprietà dei fattori di produzione quanto nella verifica empirica della reale organizzazione dei mezzi e dell'assunzione effettiva del rischio d'Impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura di prestazione lavorativa che, se effettuata da soggetti non autorizzati, configura il reato di cui all'art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276. Infatti con la sentenza n. 7070 del 13 febbraio 2013 la Suprema Corte ha confermato la responsabilitá penale di un imprenditore il quale, pur avendo formalmente stipulato con un soggetto terzo un contratto d'appalto, in realtà aveva richiesto a tale soggetto la mera somministrazione di manodopera, e ciò nonostante questi non fosse in possesso dei requisiti di legge previsti per gli intermediari abilitati alla somministrazione di lavoro.

La sussistenza del reato de quo e, quindi, la natura simulata del contratto d'appalto nella fattispecie in questione ė stata motivata sulla base del fatto che il contratto inter partes concluso era di fatto privo degli elementi propri del contratto di appalto. Come noto, infatti, ai sensi dell'art. 1655 cod. civ. l'appalto ė il contratto in forza del quale un soggetto si obbliga ad eseguire un'opera dietro il pagamento di un prezzo, con organizzazione di mezzi propria e gestione a proprio rischio. Nel caso in cui invece l'appaltatore si limiti a fornire al committente la mera forza lavoro e ad agire quale nudus minister, oltre a spostarsi in capo al committente medesimo le responsabilità per danni, si profila altrsì la fattispecie di reato ex art. 18 del già richiamato decreto. Rileva insomma che l'appaltatore non abbia mai esercitato alcun potere direttivo o organizzativo in ordine all'espletamento delle mansioni affidate, né abbia assunto alcun rischio di impresa.

In siffatti casi, il contratto di appalto si configura con certezza come simulato, celando una mera fornitura di prestazione lavorativa, vietata in assenza della prescritta autorizzazione e sussiste pertanto il reato di cui all'art. 18, comma 2, del citato D.Lgs n. 276/2003, punito con l'ammenda di euro 50,00 per ogni lavoratore impiegato, moltiplicato per il numero dei giorni in cui il lavoratore ha prestato la sua opera (ad esempio l'impiego di n.2 lavoratori per un n. di 30 giorni comporta una sanzione di euro 3.000,00.

domenica 17 febbraio 2013

Dopo Forza chiara il caso Belen: cosa fare quando l'ex pubblica su internet foto osè e video hard - un nuovo capitolo della lotta al cyberbullismo ed alle vendette fai da te


Capita sempre più spesso che foto e materiale sensibile raffiguranti momenti intimi di una coppia vengano, a scopo di estorisione o semplicemente per vendetta, resi pubblici utilizzando la devastante capicità diffusiva delle nuove tecnologie e della rete internet.

Sempre più di frequente, peraltro, tale materiale ha come protagonisti minorenni.

Queste condotte configurano ad avviso di chi scrive una forma di cyberbullismo, che, come evidenziato nel precedente post, è un fenomeno degenerativo legato alla presenza sempre più capillare di connessioni internet e social network. 

Il cyberbullo, celandosi dietro nomi finti, alias e, soprattutto, dietro lo schermo del monitor, pensa di poter torturare impunemente le proprie vittime, con conseguenze anche gravissime sulla loro psicologia.

Con un semplice clic si rovina la vita di una persona, che ritrova suo malgrado i propri momeneti più intimi alle luci della ribalta.

Molti non sanno che questo tipo di condotte sono severamente punite dalla legge, e ciò a maggior ragione se i protagonisti sono minorenni.

Va ricordato che anche una persona minorenne, quand'anche apparentemente dall'aspetto adulto, è pur sempre minorenne e la legge punisce sia la diffusione (ad esempio, mediante software di P2P) sia la mera detenzione di materiale pornografico coinvolgente minori ai sensi dell'artt. 600-ter, comma 3, e 600-quater c.p. 

Quindi non solo chi diffonde, ma anche chi detiene, materiale raffigurante minori sicuramente incorre in primo luogo nelle sanzioni penali relative al contrasto della pornografia minorile.

Ma non disperino neppure gli EX a vario titolo (ex mogli, mariti, fidanzati, amanti etc...) che sono diventati involuti protagonisti di video o fotoshooting privati, perché in loro soccorso possono essere invocate le norme in materia di privacy e le norme penalistiche in materia di diffamazione, anche con l'applicazione dell'aggravante della diffusione a mezzo della stampa, per le ragioni che verranno meglio illustrate in seguito.

Tornano alla tutela apprestata dal Codice della Privacy, se è vero che al momento dell'acquisizione del dato sensibile (al momento, quindi, dello scatto fotografico o del ciak) il consenso c’era, è anche vero che non si può prescindere dalla finalità per cui il consenso si era formato ed era stato dato, soprattutto in considerazione della natura ultrasensibile dei dati relativi alla sessualità di una persona, che accetta di farsi riprendere in uno dei momenti più intimi nella sfera personale di un individuo.

Per tale ragione, la prestazione del consenso, peraltro solo verbale o per facta concludentia, fornito alla ripresa tra le mura domestiche, non implica che lo stesso possa essere implicitamente valido per eventuali step successivi, quale ad esempio la pubblicazione del video, che abbandona così le mura domestiche, per entrare potenzialmente in qualsiasi casa o in qualsiasi device connesso alla rete internet. 

In poche parole il consenso all'acquisizione delle immagini non opera per la relativa diffusione. 

Peraltro, il web in siffatti casi rappresenta un'arma a doppio taglio per il cyberbullo o per l'ex frustrato. 

Infatti, da un lato consente al materiale video o fotografico di diffondersi alla velocità della luce in tutti i continenti e di restare in auge per anni, in quanto la rete non dimentica ed il file osè rimarrà online fino a quando ci rimarrà in share (vale a dire in condivisione su peer to peer).

Dall'altro canto, tuttavia, una foto o un video pubblicati sul web, salvo accorgimenti ultratecnologici ignoti ai più, sono facilmente tracciabili, ragione per cui l'autore ed il detentore potranno essere  facilmente individuabili e perseguibili.

In secondo luogo, agli autori di tali condotte potrà essere generalmente contestato anche il reato di diffamazione, peraltro anche potenzialmente con il riconoscimento dell'aggravante di cui al terzo comma (diffamazione a mezzo stampa), per le ragioni evidenziate nel precedente post.

Sul punto, già con la sentenza n. 4741/2000 la Corte Suprema di Cassazione aveva avuto modo di affermare che l’utilizzo di un sito internet per la diffusione di immagini o scritti atti ad offendere un soggetto è azione idonea a ledere il bene giuridico dell'onore nonché potenzialmente diretta erga omnes e pertanto integra il reato di diffamazione aggravata.

Tale approdo motivazionale è stato successivamente confermato in numerose pronunce, con cui è stato affermato in eguale misura che la “diffamazione tramite internet costituisce un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p., in quanto commessa con altro mezzo di pubblicità.
 
E ciò perché già nel 2000 la Corte di Cassazione riteneva inaccettabile la creazione di una sorta di zona franca che renderebbe immune dalla giurisdizione penale il fenomeno del web.

Le pronunce in esame peraltro facevano espresso riferimento anche ai dati personali associati a immagini offensive per la loro natura erotica e vulneranti il proprio patrimonio ideale costituito dal diritto alla salvaguardia della dignità, onorabilità, riservatezza.

Salva in ogni caso l'assenza di responsabilità in capo al provider, a differenza di quanto avviene in materia di diffamazione a mezzo stampa, ove risponde penalmente anche l'editore.

La differenza risiede nelle prescrizioni contenute nella direttiva 2000/31/CE, attuata dal d.lgs. n. 70 del 2003.

Viene comunque ammessa la possibilità di procedere al sequestro preventivo dei siti internet laddove venga diffuso materiale diffamatorio, in quanto unico mezzo idoneo per scongiurare la reiterazione del reato. 

Pertanto, chi viene sbattutto in piazza in mutande e reggiseno nei suoi momenti più intimi ha un ampio ventaglio di strumenti giudiziari per farla pagare al cyberbullo o all'ex frustrato di turno.

giovedì 14 febbraio 2013

Tra Web Reputation e lotta al Cyberbullismo: gli insulti su Facebook possono costare cari

Aggirandomi tra social networks e forum sono sempre rimasto stupito dalla frequenza e dalla facilità con cui gli utenti della rete litigano e si insultano tra loro, spesso utilizzando espressioni offensive e violente.

Di fronte a questo fenomeno, mi sono sempre chiesto se i cybernauiti si pongano il problema delle possibili conseguenze giuridiche di quei battibecchi solo (e sottolineo solo) apparentemente innocui.

Anzi, rigiro a voi la stessa domanda. Se e quando avete insultato qualcuno su internet, vi siete posti il problema che quell’insulto potesse essere foriero di conseguenze giuridiche?

Se la risposta è no, avete agito con leggerezza. Ma è del tutto normale.

La rete, infatti, riduce di molto, fino ad annullare, la percezione della realtà. Internet si presenta come un mondo parallelo, dove tante persone, celandosi dietro pseudonimi e sentendosi protette dal fatto di essere dietro ad uno schermo, commettono atti che probabilmente nella realtà non farebbero mai.

Non è una questione di “fegato” (per usare un eufemismo), è una mera questione di percezione (o meglio di mancata percezione) della realtà e delle possibili conseguenze delle proprie azioni, quando vengono commesse online.

Siccome, tuttavia, è solo una impressione e non valgono, quindi, i principi della fenomenologia dello spirito, può accadere che un bel giorno ci piova addosso una bella secchiata d’acqua, che ci riporta alla cruda realtà.

E’ più o meno quello che è successo ad una ragazza toscana, che, licenziata dal datore di lavoro, aveva ben pensato di insultarlo attraverso la bacheca di un noto social network.

Il personaggio in questione ha presentato una querela ed il risultato è stata, per la ragazza, una doccia gelata, che nel nostro caso assume le vesti di una sentenza pesantissima, di quelle che fanno riflettere, soprattutto in considerazione della sua portata applicativa.

Secondo la giurisprudenza del Tribunale di Livorno, il post diffamatorio integrerebbe addirittura gli estremi del reato di diffamazione a mezzo stampa, così di fatto equiparando la bacheca privata di un fruitore di social network (per quanto privata possa dirsi ogni pubblicazione sui social network) alla pubblicazione su un quotidiano o su un sito editoriale.

La giurisprudenza ha messo sullo stesso piano la capacità di diffusione e di danno all’immagine di un social network a quella di un giornale oppure di una televisione.

E ciò a causa della loro capacità di diffusione incontrollata.

Dopotutto la tesi, seppur con qualche precisazione, è condivisibile, in quanto la pubblicazione di un post su social network ha potenzialmente l'idoneità di entrare in relazione con un numero indeterminato di partecipanti.

Ne è la prova il fenomeno del cosiddetto cyber bullismo, vale a dire l'attività criminosa dei bulli da tastiera, i quali, nascondendosi dietro lo schermo del monitor, non esitano a distruggere la reputazione, l'onore ed il decoro delle proprie vittime, con risultati spesso nefasti.

La percezione di ciò che è lecito e ciò che non lo è nel mondo dell’etere è ad un livello bassissimo ed il passo tra gli insulti una tantum ed il cyber bullismo è breve.

Sbagliano, quindi, i garantisti ad oltranza che vedono nella sentenza in esame una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in una gara all’ultima querela per diffamazione.

Ho letto commenti in cui si afferma che una siffatta sentenza finirebbe per rendere Facebook un luogo di terrore, più che di piacere e distensione.

Al di là del fatto che definire un social network un luogo di piacere e distensione è alquanto discutibile, poiché, con tutto il rispetto, non si può equiparare Facebook ad una spiaggia sulla costiera amalfitana.

Se poi per distendersi e rilassarsi ci si diletta a distribuire insulti gratuiti, c’è qualcosa che non va.
 
In ogni caso al di là dell’aggravante “del mezzo della stampa”, comunque questo tipo di comportamento integra il reato di diffamazione, generalmente inteso, che punisce la condotta di chi "comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione".

La reputazione, l'onore ed il decoro sono diritti inviolabili ed indisponibili della persona e la norma penale non fa altro che rafforzare la tutela già accordata dalla legge civile, proprio in considerazione della loro importanza.

Pertanto, anche in ragione della gravità di questo fenomeno che spesso sfocia nel cyber bullismo, ritengo (da cittadino) inopportuni commenti ultra garantistici, poiché, se ci si comporta secondo le regole della buona educazione e del rispetto reciproco (ricordarsi sempre di "non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso"), nessun social network potrà essere reso "un luogo di terrore" da una sentenza di un Tribunale.

La giurisprudenza non fa altro che cogliere i segnali di allarme che provengono dalla società civile e, per imporre il rispetto di principi indisponibili ed inviolabili della persona, ha riconosciuto l'applicabilità della fattispecie più grave di diffamazione, vale a dire quella a mezzo stampa ex art. 595 c.p. comma III (fino a tre anni di reclusione e multa non inferiore agli € 516,00).

Sono il cyber bullismo e gli abusi di chi pensa di avere il mondo in pugno nascondendosi dietro ad uno schermo a rendere il social network un inferno.

E’ bene, quindi, sapere che, se si trova la persona sbagliata, insulti, oscenità e espressioni lesive della reputazione scritti a cuor leggero su internet possono costare molto cari.

Peraltro, quella del Tribunale di Livorno non è una decisione isolata, in quanto precedentemente anche il Tribunale di Monza, in una delle prime pronunce in tema di risarcimento per danni illeciti compiuti sui social network, aveva stabilito un risarcimento di ben 15.000,00 euro in favore di un soggetto risultato vittima di un messaggio diffamatorio tramite Facebook, proprio rinvenendo in siffatte condotte gli estremi della diffamazione a mezzo stampa.

L'unico tallone di Achille di queste decisioni è rappresentato da una Sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2011, con cui veniva data una definizione di "mezzo stampa" rilevante ai fini dell'applicazione dell'aggravante ex art. 595 comma III c.p., da cui erano esclusi forum e social network.

Lettori fissi