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sabato 29 ottobre 2011

Le molestie su facebook e sugli altri social network integrano il reato di stalking


I comportamenti persecutori e ossessivi, anche se perpetrati a mezzo di posta elettronica o tramite social networks, possono intergrare il reato di stalking  e pertanto è legittimo il provvedimento che vieta ad un soggetto di avvicinarsi all'ex partner nei cui confronti aveva rivolto "ossessive e petulanti attenzioni e molestie" mediante l'invio di email, sms, messaggi sui social network sia in privato che postando sul wall/bacheca dei profili facebook ed affini. 

Tali condotte configurano molestie reiterate integrative del reato di stalking, con conseguente applicazione delle relative misure cautelari personali. Pertanto in tali casi è legittimo diffidare e quindi vietare al partner di avvicinarsi al proprio ex.

La Corte di Cassazione difende i professionisti dall'abuso del ricorso alla responsabilità professionale: il consulente non risponde degli errori quando la disciplina normativa è confusa

Secondo la Corte di Cassazione (Sent. 21700/2011) non si profila responsabilità del professionista qualora la consulenza fornita presenti errori riconducibili ad una interpretazione fuorviata da un quadro normativo confuso e magmatico, come peraltro il quadro normativo italico, soprattutto in materia fiscale.


Infatti, secondo la Suprema Corte, peraltro come previsto dalla norma di cui all'art 2236 c.c., la responsabilità professionale del professionista nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà - cui rientra l'analisi di un quadro normativo confuso e magmatico - si configura nei soli casi di dolo o colpa grave.

Secondo Rex Law la sentenza in esame restituisce un po' di serenità a professionisti e pone una barriera protettiva contro eventuali abusi del ricorso alla professional malpractice/responsabilità professionale da parte dei clienti.

mercoledì 12 ottobre 2011

A volte ritornano...secondo la giurisprudenza le società cancellate nonostante la sussistenza di poste attive non liquidate e giudizi pendenti devono essere "resuscitate" secondo il meccanismo della cancellazione della cancellazione

Come noto, con la cancellazione della società dal Registro delle imprese rappresenta si conclude il procedimento di liquidazione, e cioè il procedimento di dismissione del patrimonio sociale al fine di  soddisfare i creditori sociali e ripartire eventuali utili a bilancio, naturalmente una volta che siano stati restituire eventuali finanziamenti ed i conferimenti dei soci.

Una volta cancellata la società dal Registro delle imprese, bisogna valutare quale tutela possa essere assicurata ai creditori sociali rimasti insoddisfatti.

Prima della riforma del 2003, ai sensi dell'art. 2456 cod. civ., dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi

Peraltro, secondo la giurisprudenza, la cancellazione dal Registro delle imprese della iscrizione di una società commerciale (di persone o di capitali) era condizione necessaria, ma non sufficiente a determinarne l’estinzione.

Il che equivaleva ad attribuire alla cancellazione la forza di mera pubblicità dichiarativa, che non produceva l’estinzione della società in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici.

Con il D.lgs. n. 6/2003, è stata invece introdotta una disciplina unitaria dello scioglimento per tutte le società di capitali.
Ai sensi del nuovo art. 2495 cod. civ., invece, viene espressamente attribuito l'effetto estintivo alla cancellazione della società dal Registro delle imprese, ragione per cui la cancellazione ha oggi effetto costitutivo e non meramente estintivo.

A tutela dei creditori sociali è stato invece previsto allo stesso art. 2495 cod.civ. che la domanda giudiziale, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società.

In questo modo nelle intenzioni del legislatore si dovrebbero agevolare i creditori sociali non soddisfatti sottraendoli a laboriose ricerche.

E' fuor di dubbio quindi che a seguito della riforma del 2003, la cancellazione produca effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società in ogni caso, anche in presenza di debiti insoddisfatti o di rapporti non definiti di qualunque altro tipo.

Alla luce di quanto sopra, stando alla portata letterale della norma, i creditori sociali insoddisfatti possono esperire soltanto le azioni contro i soci e contro il liquidatore di cui all’art. 2495, c. 2, c.c.

La giurisprudenza sul punto è contrastante.

Secondo un primo orientamento, l’atto formale di cancellazione di una società dal registro delle imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determina l’estinzione della società ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di liquidazione, ovvero non siano definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determina, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società e un mutamento nella rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permane in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (sic, Cass., 15 gennaio 2007, n. 646 e Cass., 23 maggio 2006, n. 12114).

Secondo un diverso indirizzo giurisprudenziale, invece, a seguito della modifica apportata all’art. 2495 c.c., c. 2 la cancellazione dal registro delle imprese produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di rapporti non definiti ed anche se è intervenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina, ed ha riguardato una società di persone con conseguente perdita della capacità processuale della società e passaggio della rappresentanza dagli organi che la rappresentavano prima della cancellazione” (sic, Cass., 15 ottobre 2008, n. 25192; Cass., 18 settembre 2007, n. 19347 e Cass., 28 agosto 2006, n. 18618).

A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con tre sentenze gemelle del 22 febbraio 2010, le n. 4060, n. 4061 e n. 4062, che hanno individuato una soluzione unitaria al problema degli effetti dell’iscrizione della cancellazione di tutti i tipi di società.

Infatti, con riferimento alle società di capitali e cooperative, hanno affermato che l’art. 2495, c. 2, c.c., come modificato dalla riforma del 2003,è norma innovativa e ultrattiva, che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione in conseguenza dell’indicata pubblicità e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire e riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci, dopo l’entrata in vigore della norma, con le novità previste agli effetti processuali per le notifiche intraannuali di dette citazioni, in applicazione degli artt. 10 e 11 preleggi e dell’art. 73 Cost., u.c. Il citato articolo, incidendo nel sistema, impone una modifica del diverso e unanime pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimità fondato sulla natura all’epoca non costitutiva della iscrizione della cancellazione che invece dall’1 gennaio 2004 estingue le società di capitali”.

Raggiunta tale soluzione per le società di capitali e le cooperative, con riferimento alle società di persone le Sezioni Unite hanno stabilito che dalla stessa data …, esclusa l’efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, impossibile in difetto di analoga efficacia per legge della loro iscrizione, per ragioni logiche e di sistema, può affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell’attività dell’impresa collettiva, opponibile dall’1 gennaio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ai sensi degli artt. 2312 e 2324 c.c. norme in base alle quali si giunge ad una presunzione del venir meno della capacità e legittimazione di esse, operante negli stessi limiti temporali indicati, anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse società sono parti, in attuazione di una lettura costituzionalmente orientata delle norme relative a tale tipo di società, da leggere in parallelo ai nuovi effetti costitutivi della cancellazione delle società di capitali per la novella.

Alla luce dei principi sopra enunciati dalla Suprema Corte si può ritenere dato ormai acquisito che la cancellazione determini l’estinzione della società sicuramente irreversibile, anche nel caso in cui rimangano pendenze passive.

Nel caso in cui vi siano delle sopravvenienze di attivo o con riferimento alle cause in corso, gli elementi dell’attivo in ogno caso a rigor di logica dovrebbero spettare pro quota ai singoli soci secondo le norme sulla comunione ed in proporzione alla quota di riparto attribuita a ciascun socio.

Per quanto concerne i giudizi in corso, l'estinzione della società potrebbe essere equiparata alla morte della persona fisica e pertanto i processi devono essere interrotti.

Tuttavia le soluzioni di cui sopra lasciano alquanto perplessi e vi è chi ritiene che in siffatti casi vada disposta la cancellazione della cancellazione della società, istituto che opera secondo il meccanismo di cui all’art. 2191 c.c., per il quale, “se un’iscrizione è avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge, il giudice del registro, sentito l’interessato, ne ordina con decreto la cancellazione”.

Il Giudice del Registro, eventualmente adito da chi sia portatore di un interesse meritevole di protezione, può ordinare la cancellazione della cancellazione della società, in quanto la cancellazione è avvenuta senza che sia stata compiuta in senso sostanziale e definitivo la liquidazione dell’attivo.

Tale soluzione si rende necessaria proprio in considerazione delle difficoltà operativeche sorgono nel caso in cui vi siano poste attive superstiti  e la soluzione adottata si basa sulla considerazione che “la cancellazione e quindi l’estinzione della società presuppone che, ai sensi dell’art. 2492, c. 1, c.c., sia stata «compiuta la liquidazione»: qualora si scopra l’insussistenza di tale presupposto sostanziale, la cancellazione è stata effettuata non validamente ed è consentito porre riparo a tale situazione non altrimenti rimediabile”.

Tale tesi è stata sposata dalla giurisprudenza di merito secondo cui la legittimazione ad agire in via esecutiva per il recupero di crediti sopravvenuti a favore della disciolta e cancellata società di persone non spettasse ai soci in proprio, bensì ancora alla società previa cancellazione ex art. 2391 c.c. dell’iscrizione della cancellazione dal Registro delle imprese.

Infatti, nel caso in cui sopravvivano poste all'attivo di bilancio o cause pendenti, ben può dirsi che la liquidazione non sia completata (e che quindi non si possa cancellare legittimamente la società) fino a che vi siano sopravvivenze attive, note o ignote che esse siano.

Quando vi siano tali sopravvivenze o sopravvenienze attive, la cancellazione della società potrebbe dunque essere cancellata d’ufficio, col meccanismo dell’art. 2391 cit., onde consentire il completamento delle operazioni di liquidazione … Né va trascurato che, specie laddove vi siano soci limitatamente responsabili, l’ammissibilità di una cancellazione senza previa liquidazione dei beni sociali potrebbe compromettere l’efficacia della tutela dei creditori sociali”.

Anche il Tribunale di Milano, Sez. VIII Civ., ha disposto la cancellazione della cancellazione di una società a responsabilità limitata in una fattispecie in cui, a seguito di cancellazione avvenuta ex officio ai sensi dell’art. 2490, c. 6, c.c., la liquidatrice aveva prodotto documentazione attestante la permanente sussistenza di cespite ancora intestato alla società.

Anche in tale caso, è stato stabilito che “laddove gli interessati dimostrino che la liquidazione non è nella realtà terminata, può provvedersi ex art. 2391 c.c. alla cancellazione della cancellazione della srl

Tale conclusione non contrast[a] con l’interpretazione data all’art. 2495, nuovo testo, c.c. dalla ben nota sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 4062/10, dal momento che tale decisione, nell’affermare che l’iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società comporti l’estinzione della società stessa, non preclude, ad avviso del giudicante, l’applicabilità dell’art. 2191 c.c. per i casi in cui, come quello in esame, la cancellazione sia avvenuta in mancanza dei necessari presupposti”, non potendo la liquidazione dirsi completata al momento della cancellazione in presenza di attivo patrimoniale da liquidare.

La Cassazione contro le insidie della strada: se la buca è coperta di acqua la responsabilità dell'ente gestore del manto stradale è aggravata

Secondo una recente stautizione della Corte di Cassazione (Ord. n. 11430/2011), se il cittadino inciampa in una pozza d'acqua si configura una ipotesi di responsabilità aggravata del custode della strada formato groviera, di solito l'amministrazione comunale.

Secondo la Suprema Corte infatti proprio la circostanza che la buca sia ricoperta di acqua rappresenta una circostanza idonea ad aggravare gli effetti della responsabilità per difetto di manutenzione e manifesta la sussistenza del nesso causale fra la situazione della strada e l'infortunio eventualmente occorso.

L'amministrazione pubblica deve garantire il buono stato del manto stradale ed intervenire tempestivamente per rimuovere le insidie dello stesso.

Anche con riferimento alla responsabilità civile, se l'evento dannoso è collegato a più azioni, mancanze o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41, cod. pen.

Secondo la Corte di Cassazione (Sent. n. 17376/2011) in tema di responsabilità civile, qualora l'evento dannoso si ricolleghi a più azioni od omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41, cod. pen. - norma di carattere generale, applicabile anche ai giudizi civili di responsabilità.

Secondo la norma penalistica richiamata dalla Suprema Corte, il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti l'esclusiva efficienza causale di una di esse. 

In particolare, in riferimento al caso in cui una delle cause consista in una omissione, la positiva valutazione sull'esistenza del nesso eziologico tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l'azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l'evento dannoso ovvero a ridurne le conseguenze, non potendo esserne esclusa l'efficienza soltanto perchè sia incerto il suo grado di incidenza causale (Cass., 2 febbraio 2010, n. 2360).

In tema di responsabilità civile, poichè l'omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento, una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo (Cass., 5 maggio 2009, n. 10285).

Il principio enunciato dalla Suprema Corte con la sentenza in esame ha una portata assai generale e pertanto è, a mio avviso, applicabile a numerose fattispecie anche assai diverse rispetto a quella decisa con la sentenza stessa. 

La moglie casalinga ha diritto all'assegno di mantenimento di importo adeguato a garantirle lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio

La Corte di Cassazione (Sent. n. 18618/2011) ha di recente definito i casi e le modalità di determinazione dell'assegno di mantenimento del coniuge che non ha lavorato durante il matrimonio, perché "casalingo!.

Ai sensi dell'art. 156 c.c. il coniuge ha diritto al mantenimento, e quindi a ricevere il relativo assegno, quando non abbia redditi adeguati e, in applicazione di tale principio, giurisprudenza costante (ex plurimis Cass. n. 2156 del 2010) ha ritenuto di precisare che per la separazione l'inadeguatezza dei redditi viene valutata in funzione dell'esigenza di conservare, almeno tendenzialmente, il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

Pertanto l'assegno di mantenimento deve assicurare al coniuge "debole" in linea di massima un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio.

Ne consegue che l'ammontare dell'assegno di mantenimento in sede di determinazione dovrà essere commisurata oltre che in base ai redditi dell'obbligato, anche in base alle "sostanze" dello stesso.

Infatti, anche nel caso in cui i redditi dell'obbligato fossero inferiori proporzionalmente rispetto ad un cospicuo patrimonio, l'assegno stesso dovrebbe quantificarsi anche con riguardo a tale patrimonio.


In mancanza di prove attestanti il "tenore di vita" tenuto dai coniugi in costanza di matrimonio, lo stesso può essere ricavato proprio dall'ammontare complessivo del patrimonio e dei redditi dei coniugi, dando esso luogo ad una presunzione sul tenore di vita da essi goduto durante il matrimonio. 

Ne consegue che se uno dei coniugi, di solito la moglie, non ha mai lavorato durante la convivenza matrimoniale, perché casalinga, sempre accudendo al coniuge e alle figlie, lo stesso secondo la Corte di Cassazione non ha redditi e possiede una capacità di guadagno pressochè nulla.
Pertanto, la casalinga avrà senz'altro diritto all'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c. e lo stesso dovrà essere di importo adeguato a garantirle un tenore di vita analogo a quello tenuto durante la convivenza matrimoniale.

lunedì 10 ottobre 2011

Незаконно пребывающие иммигранты могут вступать в брак в Италии: можно пожениться без визы или разрешения на пребывание.


Итальянский Конституционный Суд (Заявление № 245/2011) объявил незаконным ст. 116 Гражданского Кодекса относительно Конституции Италии, в той мере, что она позволяет только постоянно пребывающим иностранцам вступать в брак на территории Италии.

В соответствии с Конституционным Судом, по сути, брак является выражением свободы каждого человека, так что право на вступление в брак без ограничений само по себе защищено и закреплено в Конституции (Статьи 2, 3, 29), в связи с тем, что брак является и должен быть включен в число неприкосновенных прав человека, типизированных по характеру всеобщности и абсолютности.

В соответствии с Конституционным судом, Итальянская Республика направлена ​​на создание семьи, облегчает этот путь, отрицает и борется с каждым видом ограничения свободы при заключении брака, который срывается и задерживается правилами, находящимися под рассмотрением.

Свобода вступления в брак освящена даже Биллем о правах человека и Договорами Европейского Союза, в соответствии с которыми свобода вступления в брак это право, которое должно гарантироваться и обеспечиваться без «если» или «но», так что законодательство каждого государства не может предусматривать необоснованные условия и ограничения на это право.

Конституционный Суд  уже сам  ранее заявлял, что Итальянская Республика может уверенно предусматривать правила, которые регулируют въезд и пребывание иммигрантов, но никогда необоснованные правила, что идут вразрез с международными обязанностями, предусмотренными заключенными и подписанными договорами (Заявление №. 61/2011 , № 187/2010, № 306/2008).

Во всяком случае, правила, регулирующие въезд и пребывание иммигрантов из стран, не входящих в Европейский Союз, должны быть результатом разумного компромисса между различными интересами, признанными Конституцией, особенно, когда дело доходит до правил, которые влияют и имеют отношение к правам человека, как например, свобода вступления в брак (Заявление № 445 от 2002).

Giurisprudenza di merito: il verbale di mediazione non può essere trascritto nei pubblici registri - la mediazione civile sempre più inutile?

USUCAPIONE: Se il diritto è accertato con la mediazione non è trascrivibile alla conservatoria
07 ottobre 2011
Secondo la Giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma Decr. 6563/2011) il verbale di conciliazione sottoscritto avanti al mediatore, il quali accerti l’acquisto per usucapione della proprietà o di altro diritto reale, non può essere trascritto nei registri immobiliari.


Secondo il Tribunale di Roma, infatti, l’accordo fra le parti non produce alcun effetto costitutivo, modificativo o estintivo di diritti reali, consistendo in un negozio di mero accertamento, mentre come noto l'acquisto per usucapione deve essere dichiarato con sentenza per l'appunto dichiarativa del Tribunale.

Emerge quindi un ulteriore profilo di dubbio sulla reale efficacia della mediazione civile e commerciale, che già tanti dubbi ha sollevato.

La Corte di Cassazione anticipa la Corte di Giustizia Europea sulla disapplicazione del "pacchetto sicurezza". L'inottemperanza dell'ordine di espulsione da parte dell'immigrato, anche se clandestino, non può essere punita con il carcere.

La Suprema Corte di Cassazione (Sentenza 10 agosto 2011 n. 31869) ha de facto disapplicato, peraltro in conformità di un principio enunciato dalla Corte di Giustizia Europea (vd. commento del 5/5/2011), che è pure chiamata a decidere della conformità della normativa in esame rispetto alla Dir. 2008/115, la norma contenuta nel c.d. pacchetto sicurezza che prevede addirittura il carcere in caso di plurime violazione del decreto di espulsione.

Infatti, proprio la Sentenza della Corte di Giustizia Europea del maggio 2011 aveva consacrato il principio per cui la condizione di straniero irregolare non poteva integrare ipso facto un reato, ragione per cui secondo la Corte di Cassazione il mancato adempimento del decreto di espulsione non può esso stesso configurarsi quale ipotesi di reato.

Il fatto che penda ad oggi avanti alla Corte di Giustizia Europea la questione di legittimità della norma in esame rispetto alla sopra richiamata Direttiva, secondo la Corte di Cassazione, rende opportuno l'annullamento dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in applicazione del c.d. pacchetto sicurezza, in quanto non si può non considerare l'eventuale, ed anzi più che probabile, futura cancellazione della norma. Non si può non tenere in debita considerazione il fatto che il diritto comunitario esclude espressamente che il mancato adempimento del decreto di espulsione possa integrare una ipotesi di reato.

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