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mercoledì 24 aprile 2013

Responsabilità medica: l'errata diagnosi ed i presupposti per la responsabilità penale del medico

Un caso tipico, questa volta con risvolti estremamente drammatici.

Il medico curante sbaglia la diagnosi, minimizza i sintomi riferitigli e prescrive una terapia non idonea, rifiutando il ricovero per accertamenti del paziente, che morirà dopo alcuni giorni.

Il medico, condannato in primo grado a 4 mesi di reclusione, contrariato dalla decisione della Corte d'Appello, che conferma la sentenza del Tribunale, propone ricorso per cassazione.
Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso era manifestamente infondato ed è stato quindi rigettato con la Sent. 12923/2013.

La sentenza in esame è molto interessante, poiché ripercorre e riassume i presupposti della responsabilità per colpa medica a seguito di errata diagnosi.

Si sa, chi lavora può sbagliare, ma quando a sbagliare sono i medici, son dolori.

La responsabilità civile e penale del medico per errata diagnosi sussiste ogni qual volta via sia la prova del nesso causale tra l'errore del medico ed il danno al paziente.

L'errata diagnosi, per essere fonte di responsabilità, ovviamente colposa, deve costituire la condicio qua non della lesione, senza la quale l'evento dannoso non si sarebbe verificato.

In poche parole, il medico sarà responsabile in tutti i casi in cui, se avesse operato in maniera diversa, si sarebbero evitate le conclusioni infauste, come ci hanno insegnato le stesse Sezioni Unite della Suprema Corte nel celeberrimo caso Franzese.

Se la corretta diagnosi in ogni caso non avrebbe evitato il prodursi dell'evento dannoso e della lesione al bene giuridico protetto dalla legge, il medico sarà, tendenzialmente, esente da conseguenze legali.

Ma come si fa a capire se il medico avrebbe potuto individuare i sintomi e la cura in maniera corretta?

In questo caso, la giurisprudenza fa ricorso ai classici modelli comportamentali.

Viene preso ad esempio il medico mediamente capace e si stabilisce, con una simulazione a tavolino - per capirci, se questo medico medio, in condizioni analoghe, sarebbe stato in grado di operare in modo corretto e sarebbe riuscito a capire le cause del malessere del proprio paziente e a prescrivere la cura idonea a guarirlo.

Da questo test emergerà anche l'effetto salvifico o meno delle condotte omesse.

Una valutazione di questo tipo potrà giungere solo al termine di complesse indagini medico-legali e, quindi, di una perizia d'ufficio, al fine di dimostrare che, se il medico avesse effettuato una diagnosi corretta, il danno patito dal paziente non si sarebbe verificato.

Naturalmente, in base all'evento dannoso prodotto, il capo di imputazione ascritto al medico andrà dalle lesioni colpose, più o meno gravi, all'omicidio colposo, se dall'errore sarà derivata la morte del paziente.

Cari lettori, avrete senz'altro capito che la materia è complessa e costosa, sia in termini economici che in termini di impatto sociale della problematica esaminata.

Nella mia esperienza, essendomi occupato per anni di responsabilità medica per note aziende ospedaliere ed anche per vittime di errate diagnosi, mi sono capitati moltissimi casi di questo tipo, molti anche tragici.

In ogni caso, prima di iniziare una causa civile per professional malpractice o, a maggior ragione, prima di denunciare il medico per lesioni o omicidio colposo è bene procurarsi una perizia di parte, che evidenzi il nesso causale tra il presunto errore ed il danno/lesione subiti, che devono essere, comunque, accertati e quantificati.

Si tratta, infatti, di tematiche molto tecniche, dove il supporto di un consulente di parte di livello è fondamentale.

A livello penalistico, premesso che il PM avrà il suo consulente, non è semplice dimostrare la sussistenza di una responsabilità del medico, in quanto la prova del nesso di causalità e del danno non è agevole ed alla magistratura inquirente e giudicante deve essere fornito sin dall'inizio un principio di prova che abbia un sufficiente grado di certezza, in considerazione della gravità delle conseguenze.

Nel corso del giudizio sarà senz'altro disposta una perizia tecnica d'ufficio e, poiché, la sentenza conclusiva si baserà nella stragrande maggioranza dei casi sulle risultanze della perizia d'ufficio, in caso di costituzione di parte civile sarà necessario affiancare al perito del giudice un vostro esperto, con costi notevoli.

E questo anche in ambito civilistico, ove alla responsabilità medica trovano applicazione i principi dell'inadempimento contrattuale ed il paziente dovrà dedurre in giudizio l'inadempimento del medico e provare il relativo danno, mentre il medico dovrebbe provare la corretta esecuzione della prestazione.

Vero è che, dimostrato il nesso di causalità ed il danno, la giurisprudenza sanziona in modo molto severo, sia penalmente che civilmente, la condotta dei medici, in caso di errata diagnosi.

Dall'errore di un medico deriva sempre una lesione alla salute, fattispecie che configura tanto un illecito civile quanto un illecito penale.

Proprio per questo, si è arrivati al punto che molti medici, per paura di incorrere in conseguenze legali, svolgono il proprio mestiere con timore e sono costretti a prescrivere esami su esami, per mettersi al riparo da contestazioni e censure sul loro operato.

Dopotutto, quando c'è di mezzo la salute, la prudenza non è mai troppa, anche se non bisogna trascendere in abusi, in quanto il rischio è la paralisi del sistema sanitario.

domenica 14 aprile 2013

Forse la parola fine sull'annosa questione degli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese - Commento alle Sentenze della Corte di Cassazione n. 6070 e 6072/2013


Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le sentenze gemelle (eterozigote) n. 6070/2013 e 6072/2013, hanno forse scritto la parola fine sulla annosa questione degli effetti sui rapporti giuridici di una società ancora in essere al momento della cancellazione dalla CCIAA.

In particolare, la Suprema Corte ha definito i destini dei rapporti debitori, creditori e processuali.

Secondo la massima elaborata, qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio.

Il primo corollario di tale principio è che le obbligazioni della società cancellata si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali.

Il secondo corrollario è che si trasferiscono altresì ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non contemplati nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, anche se azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto la prosecuzione della fase di liquidazione. 

Con la conseguenza che il mancato espletamento da parte del liquidatore delle attività necessarie al recupero di dette poste attive equivale ad un atto di rinuncia della societá.

Sotto il profilo processuale, invece, la cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società impedisce che la stessa possa agire o essere convenuta in giudizio.

Se l’estinzione della società cancellata dal registro delle imprese interviene, quindi, in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli articoli 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci.

Ove invece l’evento estintivo non sia stato eccepito nei tempi e nei modi di cui agli artt. 299 e seguenti c.p.c., l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve essere promossa, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti.

Come noto, infatti, a seguito della riforma del diritto societario, di cui al D.Lgs. n. 6/2003, la questione degli effetti della cancellazione di una societá dal registro delle imprese è stata al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale,

La problematica della cancellazione della società era già stata in numerose pronunce affrontata dalla giurisprudenza, che aveva  avevano sottolineato i rilevanti limiti dell'art. 2495 cod.civ. 

La norma in esame, disciplinando gli effetti della cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese, dispone che, approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. 

Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. 

La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società. 

I dubbi interpretativi nascevano dal fatto che la cancellazione produce senz’altro l’effetto estintivo della società, salvo la prova della continuazione di fatto dell'impresa, da cui puó tutt'al più scaturire la procedura di cancellazione della cancellazione.

Si trattava allora di definire, secondo una lettura sistematica e razionale della norma, le effettive conseguenze che potevano derivare in ordine ai rapporti già in capo alla società estinta, ma pendenti al momento della cancellazione, in quanto trascurati o sopravvenuti.

Nell'esegesi applicativa della norma, la giurisprudenza si era convinta del fatto che il legislatore, elaborandone la ratio, non avrebbe potuto mai volere, come conseguenza naturale della cancellazione, l'estinzione dei rapporti passivi. 

Una simile scelta avrebbe penalizzato ingiustificatamente i creditori sociali insoddisfatti al momento della formalità di cancellazione. 

Pertanto, la naturale conseguenza della mancata estinzione delle posizioni creditorie doveva per forza di cose essere il passaggio dei debiti insoddisfatti, alla data di cancellazione della società, in capo ai successori dell’ente, configurando di tal guisa un’ipotesi di successione inter vivos. 

Infatti, la ratio da perseguire risiede nell’intento di impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, negare a quest’ultimo il suo diritto di credito. 

Tuttavia un siffatto risultato si può realizzare appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono ipso iure in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità patrimoniale codificati dall'2495 cod. civ. 

Viene di conseguenza affermato che è da considerare quale naturale conseguenza della cancellazione della società la ripercussione dei rapporti debitori ancora pendenti nella sfera giuridica dei soci, al pari di quello che avviene con la fusione. 

Dopotutto, che con la cancellazione si verifichi un fenomeno successorio lo dice la stessa norma di cui all'art. 2495 cod. civ.

Con riferimento ai limiti della responsabilità dei soci nelle società di capitali, é noto che i soci stessi rispondono intra vires, rectius nei limiti dei riparti di cui al bilancio finale di liquidazione, a mio avviso, pur sempre ammesso che sia stato regolarmente formato.

I diritti nei confronti della società si prescrivono in un anno a decorrere dall'iscrizione in CCIAA della cancellazione, realizzando in questo modo un parallelismo tra la disciplina della cancellazione delle societá e gli effetti processuali della morte della parte, secondo la disciplina prevista dall'art. 303 c.p.c.

Invece, relativamente alle situazione attive (attivi non liquidati e sopravvenienze attive), pendenti al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, è ragionevole ipotizzare che la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti rientri in un regime di contitolarità o di comunione indivisa tra i soci. 

Per concludere, dopo la cancellazione, i debiti si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti dei riparti percepiti a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che i soci fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali.

Ferma in ogni caso la responsabilità illimitata del liquidatore che abbia colpevolmente omesso o ignorato un debito della società.

Si trasferiscono altresì ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.

Sotto il profilo processuale, invece, la società cancellata cessa di esistere e, conseguentemente, non può quindi essere parte processuale attiva o passiva. 

Qualora la cancellazione della società dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e seguenti c.p.c., con facoltà di proseguire o riassumere il procedimento nei confronti o da parte dei soci.

Si può quindi concludere che i dubbi interpretativi in relazione alla norma di cui all'art. 2495 cod. civ. sono stati definitivamente dissipati, con buona pace di tutti gli operatori del diritto.

mercoledì 3 aprile 2013

Marcia indietro della Cassazione sull'applicabilità del D.lgs. 231/2001 alle imprese individuali.

Le previsioni ex D.lgs. 231/2001 non si applicano alle imprese individuali. Lo ha stabilito la Suprema Corte in riforma del precedente orientamento secondo cui la normativa in materia di corporate liability avrebbe trovato applicazione nei confronti di qualsiasi operatore economico, ivi incluse le imprese individuali.

Con la Sentenza n. 30085/2012 è stato invece stabilito che alle imprese individuale la responsabilità degli enti da reato non si applica perché riferita solo ai soggetti collettivi, escludendo quindi le ditte individuali.

La soluzione raggiunta dalla Corte di Cassazione è logica e condivisibile dal momento che l'impresa individuale si identifica con il suo titolare, con la conseguenza che sarà lo stesso in prima persona a rispondere dei reati commessi a questo punto nel suo interesse nell'ambito dell'attività precipua della ditta medesima.

Pertanto lo stesso sarà imputabile e punibile direttamente, anche a titolo di concorso nella preparazione e realizzazione materiale del reato.

Rexlaw/Ml&g - riproduzione riservata

Sussiste la responsabilità ex D.lgs. 231/2001 anche se la Società non consegue alcun vantaggio dal reato

La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 9079/2013 ha chiarito che quand'anche uno dei reati presupposto per l'applicabilità del D.lgs. 231/2001 commesso nell'interesse della Società non abbia determinato un vantaggio per la stessa, ciò è irrilevante ai fini dell'applicabilità del regime sanzionatorio previsto dal  Dlgs 231/2001.
Se il reato è stato commesso nell'interesse della società, il fatto che la condotta criminale non abbia avuto un esito positivo apportando un vantaggio concreto è assolutamente indifferente ai fini della configurazione della responsabilità della persona giuridica.

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