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venerdì 2 dicembre 2011

L'Internet provider non è tenuto a "sorvegliare" le comunicazioni che transitano sulla sua rete per impedire lo scambio di file protetti da diritto d'autore


La Corte di Giustizia ha stabilito il principio secondo cui il diritto dell'Unione Europea vieta che un fornitore di accesso ad Internet sia diretto destinatario di un ordine di predisporre un sistema di filtraggio per tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi, applicabile indistintamente a tutta la sua clientela - a titolo preventivo, a sue spese esclusive e senza limiti nel tempo - al fine di identificare nella rete di tale fornitore la circolazione di file contenenti un’opera musicale, cinematografica o audiovisiva rispetto alla quale il richiedente affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare il trasferimento di file. 

Infatti, i titolari di diritti di proprietà intellettuale possono chiedere che venga emanata un'ordinanza nei confronti degli intermediari, come i fornitori di accesso a Internet, i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare i loro diritti. 

Le modalità delle ingiunzioni sono poi disciplinate dal diritto processuale dei singoli Stati. 

Le legislazioni nazionali devono rispettare le limitazioni derivanti dal diritto dell'Unione, ed in particolare il divieto imposto dalla direttiva sul commercio elettronico di adottare misure che obblighino un fornitore di accesso ad Internet a procedere ad una sorveglianza generalizzata sulle informazioni che esso trasmette sulla propria rete. 

Sebbene, infatti, la tutela del diritto di proprietà intellettuale sia sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non può desumersi né da tale Carta, né dalla giurisprudenza della Corte, che tale diritto sia intangibile e che la relativa tutela debba essere garantita in modo assoluto.








RESPONSABILITÀ CIVILE – IL GIUDICE DEVE IMPUTARE ANCHE IN PRESENZA DI PATOLOGIE PREGRESSE DEL PAZIENTE L'INTERA RESPONSABILITA' SUL MEDICO PER POI RIDURRE IL RISARCIMENTO PROPORZIONALMENTE ALLA INCIDENZA DELLA CONDOTTA DEL MEDICO NELLA CAUSAZIONE DELL'ILLECITO

La Suprema Corte ha stabilito un interessente principio di diritto nei casi in cui la produzione di un evento dannoso (nella specie una gravissima patologia neonatale, concretatasi in una invalidità permanente del 100%) possa apparire riconducibile, sotto il profilo del rapporto "causa - effetto", alla concomitanza tanto della condotta del personale medico quanto fattore naturale rappresentato da una pregressa situazione patologica del danneggiato.

Secondo la Suprema Corte in tali casi il giudice deve in ogni caso acceertare l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento e, in applicazione della regola di cui all'art. 41 c.p., ricondurre in un primo momento l’evento di danno interamente all'autore della condotta illecita.

In un successivo momento dell'inter logico, il Giudice dovrà  poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalità giuridica onde ascrivere all'autore della condotta, responsabile “tout court” sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all'evento di danno bensì alla pregressa situazione patologica del danneggiato (da intendersi come fortuito).

Questo principio avrà importanti conseguenze sotto il profilo risarcitorio in quanto il Giudice, in tutte le ipotesi analoghe, è tenuto in ogni caso ad ascrivere l'intera responsabilità al personale medico per poi ridurre, a seguito dell'esame delle concause eventuali, il livello della responsabilità, introducendo quindi un presunzione iuris tantum, sulla colpa del medico. Su quest'ultimo graverà quindi l'onere di provare la scarsa incidenza della sua condotta sulla produzione del danno.

sabato 29 ottobre 2011

Le molestie su facebook e sugli altri social network integrano il reato di stalking


I comportamenti persecutori e ossessivi, anche se perpetrati a mezzo di posta elettronica o tramite social networks, possono intergrare il reato di stalking  e pertanto è legittimo il provvedimento che vieta ad un soggetto di avvicinarsi all'ex partner nei cui confronti aveva rivolto "ossessive e petulanti attenzioni e molestie" mediante l'invio di email, sms, messaggi sui social network sia in privato che postando sul wall/bacheca dei profili facebook ed affini. 

Tali condotte configurano molestie reiterate integrative del reato di stalking, con conseguente applicazione delle relative misure cautelari personali. Pertanto in tali casi è legittimo diffidare e quindi vietare al partner di avvicinarsi al proprio ex.

La Corte di Cassazione difende i professionisti dall'abuso del ricorso alla responsabilità professionale: il consulente non risponde degli errori quando la disciplina normativa è confusa

Secondo la Corte di Cassazione (Sent. 21700/2011) non si profila responsabilità del professionista qualora la consulenza fornita presenti errori riconducibili ad una interpretazione fuorviata da un quadro normativo confuso e magmatico, come peraltro il quadro normativo italico, soprattutto in materia fiscale.


Infatti, secondo la Suprema Corte, peraltro come previsto dalla norma di cui all'art 2236 c.c., la responsabilità professionale del professionista nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà - cui rientra l'analisi di un quadro normativo confuso e magmatico - si configura nei soli casi di dolo o colpa grave.

Secondo Rex Law la sentenza in esame restituisce un po' di serenità a professionisti e pone una barriera protettiva contro eventuali abusi del ricorso alla professional malpractice/responsabilità professionale da parte dei clienti.

mercoledì 12 ottobre 2011

A volte ritornano...secondo la giurisprudenza le società cancellate nonostante la sussistenza di poste attive non liquidate e giudizi pendenti devono essere "resuscitate" secondo il meccanismo della cancellazione della cancellazione

Come noto, con la cancellazione della società dal Registro delle imprese rappresenta si conclude il procedimento di liquidazione, e cioè il procedimento di dismissione del patrimonio sociale al fine di  soddisfare i creditori sociali e ripartire eventuali utili a bilancio, naturalmente una volta che siano stati restituire eventuali finanziamenti ed i conferimenti dei soci.

Una volta cancellata la società dal Registro delle imprese, bisogna valutare quale tutela possa essere assicurata ai creditori sociali rimasti insoddisfatti.

Prima della riforma del 2003, ai sensi dell'art. 2456 cod. civ., dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi

Peraltro, secondo la giurisprudenza, la cancellazione dal Registro delle imprese della iscrizione di una società commerciale (di persone o di capitali) era condizione necessaria, ma non sufficiente a determinarne l’estinzione.

Il che equivaleva ad attribuire alla cancellazione la forza di mera pubblicità dichiarativa, che non produceva l’estinzione della società in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici.

Con il D.lgs. n. 6/2003, è stata invece introdotta una disciplina unitaria dello scioglimento per tutte le società di capitali.
Ai sensi del nuovo art. 2495 cod. civ., invece, viene espressamente attribuito l'effetto estintivo alla cancellazione della società dal Registro delle imprese, ragione per cui la cancellazione ha oggi effetto costitutivo e non meramente estintivo.

A tutela dei creditori sociali è stato invece previsto allo stesso art. 2495 cod.civ. che la domanda giudiziale, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società.

In questo modo nelle intenzioni del legislatore si dovrebbero agevolare i creditori sociali non soddisfatti sottraendoli a laboriose ricerche.

E' fuor di dubbio quindi che a seguito della riforma del 2003, la cancellazione produca effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società in ogni caso, anche in presenza di debiti insoddisfatti o di rapporti non definiti di qualunque altro tipo.

Alla luce di quanto sopra, stando alla portata letterale della norma, i creditori sociali insoddisfatti possono esperire soltanto le azioni contro i soci e contro il liquidatore di cui all’art. 2495, c. 2, c.c.

La giurisprudenza sul punto è contrastante.

Secondo un primo orientamento, l’atto formale di cancellazione di una società dal registro delle imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determina l’estinzione della società ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di liquidazione, ovvero non siano definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determina, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società e un mutamento nella rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permane in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (sic, Cass., 15 gennaio 2007, n. 646 e Cass., 23 maggio 2006, n. 12114).

Secondo un diverso indirizzo giurisprudenziale, invece, a seguito della modifica apportata all’art. 2495 c.c., c. 2 la cancellazione dal registro delle imprese produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di rapporti non definiti ed anche se è intervenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina, ed ha riguardato una società di persone con conseguente perdita della capacità processuale della società e passaggio della rappresentanza dagli organi che la rappresentavano prima della cancellazione” (sic, Cass., 15 ottobre 2008, n. 25192; Cass., 18 settembre 2007, n. 19347 e Cass., 28 agosto 2006, n. 18618).

A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con tre sentenze gemelle del 22 febbraio 2010, le n. 4060, n. 4061 e n. 4062, che hanno individuato una soluzione unitaria al problema degli effetti dell’iscrizione della cancellazione di tutti i tipi di società.

Infatti, con riferimento alle società di capitali e cooperative, hanno affermato che l’art. 2495, c. 2, c.c., come modificato dalla riforma del 2003,è norma innovativa e ultrattiva, che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione in conseguenza dell’indicata pubblicità e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire e riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci, dopo l’entrata in vigore della norma, con le novità previste agli effetti processuali per le notifiche intraannuali di dette citazioni, in applicazione degli artt. 10 e 11 preleggi e dell’art. 73 Cost., u.c. Il citato articolo, incidendo nel sistema, impone una modifica del diverso e unanime pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimità fondato sulla natura all’epoca non costitutiva della iscrizione della cancellazione che invece dall’1 gennaio 2004 estingue le società di capitali”.

Raggiunta tale soluzione per le società di capitali e le cooperative, con riferimento alle società di persone le Sezioni Unite hanno stabilito che dalla stessa data …, esclusa l’efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, impossibile in difetto di analoga efficacia per legge della loro iscrizione, per ragioni logiche e di sistema, può affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell’attività dell’impresa collettiva, opponibile dall’1 gennaio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ai sensi degli artt. 2312 e 2324 c.c. norme in base alle quali si giunge ad una presunzione del venir meno della capacità e legittimazione di esse, operante negli stessi limiti temporali indicati, anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse società sono parti, in attuazione di una lettura costituzionalmente orientata delle norme relative a tale tipo di società, da leggere in parallelo ai nuovi effetti costitutivi della cancellazione delle società di capitali per la novella.

Alla luce dei principi sopra enunciati dalla Suprema Corte si può ritenere dato ormai acquisito che la cancellazione determini l’estinzione della società sicuramente irreversibile, anche nel caso in cui rimangano pendenze passive.

Nel caso in cui vi siano delle sopravvenienze di attivo o con riferimento alle cause in corso, gli elementi dell’attivo in ogno caso a rigor di logica dovrebbero spettare pro quota ai singoli soci secondo le norme sulla comunione ed in proporzione alla quota di riparto attribuita a ciascun socio.

Per quanto concerne i giudizi in corso, l'estinzione della società potrebbe essere equiparata alla morte della persona fisica e pertanto i processi devono essere interrotti.

Tuttavia le soluzioni di cui sopra lasciano alquanto perplessi e vi è chi ritiene che in siffatti casi vada disposta la cancellazione della cancellazione della società, istituto che opera secondo il meccanismo di cui all’art. 2191 c.c., per il quale, “se un’iscrizione è avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge, il giudice del registro, sentito l’interessato, ne ordina con decreto la cancellazione”.

Il Giudice del Registro, eventualmente adito da chi sia portatore di un interesse meritevole di protezione, può ordinare la cancellazione della cancellazione della società, in quanto la cancellazione è avvenuta senza che sia stata compiuta in senso sostanziale e definitivo la liquidazione dell’attivo.

Tale soluzione si rende necessaria proprio in considerazione delle difficoltà operativeche sorgono nel caso in cui vi siano poste attive superstiti  e la soluzione adottata si basa sulla considerazione che “la cancellazione e quindi l’estinzione della società presuppone che, ai sensi dell’art. 2492, c. 1, c.c., sia stata «compiuta la liquidazione»: qualora si scopra l’insussistenza di tale presupposto sostanziale, la cancellazione è stata effettuata non validamente ed è consentito porre riparo a tale situazione non altrimenti rimediabile”.

Tale tesi è stata sposata dalla giurisprudenza di merito secondo cui la legittimazione ad agire in via esecutiva per il recupero di crediti sopravvenuti a favore della disciolta e cancellata società di persone non spettasse ai soci in proprio, bensì ancora alla società previa cancellazione ex art. 2391 c.c. dell’iscrizione della cancellazione dal Registro delle imprese.

Infatti, nel caso in cui sopravvivano poste all'attivo di bilancio o cause pendenti, ben può dirsi che la liquidazione non sia completata (e che quindi non si possa cancellare legittimamente la società) fino a che vi siano sopravvivenze attive, note o ignote che esse siano.

Quando vi siano tali sopravvivenze o sopravvenienze attive, la cancellazione della società potrebbe dunque essere cancellata d’ufficio, col meccanismo dell’art. 2391 cit., onde consentire il completamento delle operazioni di liquidazione … Né va trascurato che, specie laddove vi siano soci limitatamente responsabili, l’ammissibilità di una cancellazione senza previa liquidazione dei beni sociali potrebbe compromettere l’efficacia della tutela dei creditori sociali”.

Anche il Tribunale di Milano, Sez. VIII Civ., ha disposto la cancellazione della cancellazione di una società a responsabilità limitata in una fattispecie in cui, a seguito di cancellazione avvenuta ex officio ai sensi dell’art. 2490, c. 6, c.c., la liquidatrice aveva prodotto documentazione attestante la permanente sussistenza di cespite ancora intestato alla società.

Anche in tale caso, è stato stabilito che “laddove gli interessati dimostrino che la liquidazione non è nella realtà terminata, può provvedersi ex art. 2391 c.c. alla cancellazione della cancellazione della srl

Tale conclusione non contrast[a] con l’interpretazione data all’art. 2495, nuovo testo, c.c. dalla ben nota sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 4062/10, dal momento che tale decisione, nell’affermare che l’iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società comporti l’estinzione della società stessa, non preclude, ad avviso del giudicante, l’applicabilità dell’art. 2191 c.c. per i casi in cui, come quello in esame, la cancellazione sia avvenuta in mancanza dei necessari presupposti”, non potendo la liquidazione dirsi completata al momento della cancellazione in presenza di attivo patrimoniale da liquidare.

La Cassazione contro le insidie della strada: se la buca è coperta di acqua la responsabilità dell'ente gestore del manto stradale è aggravata

Secondo una recente stautizione della Corte di Cassazione (Ord. n. 11430/2011), se il cittadino inciampa in una pozza d'acqua si configura una ipotesi di responsabilità aggravata del custode della strada formato groviera, di solito l'amministrazione comunale.

Secondo la Suprema Corte infatti proprio la circostanza che la buca sia ricoperta di acqua rappresenta una circostanza idonea ad aggravare gli effetti della responsabilità per difetto di manutenzione e manifesta la sussistenza del nesso causale fra la situazione della strada e l'infortunio eventualmente occorso.

L'amministrazione pubblica deve garantire il buono stato del manto stradale ed intervenire tempestivamente per rimuovere le insidie dello stesso.

Anche con riferimento alla responsabilità civile, se l'evento dannoso è collegato a più azioni, mancanze o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41, cod. pen.

Secondo la Corte di Cassazione (Sent. n. 17376/2011) in tema di responsabilità civile, qualora l'evento dannoso si ricolleghi a più azioni od omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41, cod. pen. - norma di carattere generale, applicabile anche ai giudizi civili di responsabilità.

Secondo la norma penalistica richiamata dalla Suprema Corte, il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti l'esclusiva efficienza causale di una di esse. 

In particolare, in riferimento al caso in cui una delle cause consista in una omissione, la positiva valutazione sull'esistenza del nesso eziologico tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l'azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l'evento dannoso ovvero a ridurne le conseguenze, non potendo esserne esclusa l'efficienza soltanto perchè sia incerto il suo grado di incidenza causale (Cass., 2 febbraio 2010, n. 2360).

In tema di responsabilità civile, poichè l'omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento, una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo (Cass., 5 maggio 2009, n. 10285).

Il principio enunciato dalla Suprema Corte con la sentenza in esame ha una portata assai generale e pertanto è, a mio avviso, applicabile a numerose fattispecie anche assai diverse rispetto a quella decisa con la sentenza stessa. 

La moglie casalinga ha diritto all'assegno di mantenimento di importo adeguato a garantirle lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio

La Corte di Cassazione (Sent. n. 18618/2011) ha di recente definito i casi e le modalità di determinazione dell'assegno di mantenimento del coniuge che non ha lavorato durante il matrimonio, perché "casalingo!.

Ai sensi dell'art. 156 c.c. il coniuge ha diritto al mantenimento, e quindi a ricevere il relativo assegno, quando non abbia redditi adeguati e, in applicazione di tale principio, giurisprudenza costante (ex plurimis Cass. n. 2156 del 2010) ha ritenuto di precisare che per la separazione l'inadeguatezza dei redditi viene valutata in funzione dell'esigenza di conservare, almeno tendenzialmente, il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

Pertanto l'assegno di mantenimento deve assicurare al coniuge "debole" in linea di massima un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio.

Ne consegue che l'ammontare dell'assegno di mantenimento in sede di determinazione dovrà essere commisurata oltre che in base ai redditi dell'obbligato, anche in base alle "sostanze" dello stesso.

Infatti, anche nel caso in cui i redditi dell'obbligato fossero inferiori proporzionalmente rispetto ad un cospicuo patrimonio, l'assegno stesso dovrebbe quantificarsi anche con riguardo a tale patrimonio.


In mancanza di prove attestanti il "tenore di vita" tenuto dai coniugi in costanza di matrimonio, lo stesso può essere ricavato proprio dall'ammontare complessivo del patrimonio e dei redditi dei coniugi, dando esso luogo ad una presunzione sul tenore di vita da essi goduto durante il matrimonio. 

Ne consegue che se uno dei coniugi, di solito la moglie, non ha mai lavorato durante la convivenza matrimoniale, perché casalinga, sempre accudendo al coniuge e alle figlie, lo stesso secondo la Corte di Cassazione non ha redditi e possiede una capacità di guadagno pressochè nulla.
Pertanto, la casalinga avrà senz'altro diritto all'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c. e lo stesso dovrà essere di importo adeguato a garantirle un tenore di vita analogo a quello tenuto durante la convivenza matrimoniale.

lunedì 10 ottobre 2011

Незаконно пребывающие иммигранты могут вступать в брак в Италии: можно пожениться без визы или разрешения на пребывание.


Итальянский Конституционный Суд (Заявление № 245/2011) объявил незаконным ст. 116 Гражданского Кодекса относительно Конституции Италии, в той мере, что она позволяет только постоянно пребывающим иностранцам вступать в брак на территории Италии.

В соответствии с Конституционным Судом, по сути, брак является выражением свободы каждого человека, так что право на вступление в брак без ограничений само по себе защищено и закреплено в Конституции (Статьи 2, 3, 29), в связи с тем, что брак является и должен быть включен в число неприкосновенных прав человека, типизированных по характеру всеобщности и абсолютности.

В соответствии с Конституционным судом, Итальянская Республика направлена ​​на создание семьи, облегчает этот путь, отрицает и борется с каждым видом ограничения свободы при заключении брака, который срывается и задерживается правилами, находящимися под рассмотрением.

Свобода вступления в брак освящена даже Биллем о правах человека и Договорами Европейского Союза, в соответствии с которыми свобода вступления в брак это право, которое должно гарантироваться и обеспечиваться без «если» или «но», так что законодательство каждого государства не может предусматривать необоснованные условия и ограничения на это право.

Конституционный Суд  уже сам  ранее заявлял, что Итальянская Республика может уверенно предусматривать правила, которые регулируют въезд и пребывание иммигрантов, но никогда необоснованные правила, что идут вразрез с международными обязанностями, предусмотренными заключенными и подписанными договорами (Заявление №. 61/2011 , № 187/2010, № 306/2008).

Во всяком случае, правила, регулирующие въезд и пребывание иммигрантов из стран, не входящих в Европейский Союз, должны быть результатом разумного компромисса между различными интересами, признанными Конституцией, особенно, когда дело доходит до правил, которые влияют и имеют отношение к правам человека, как например, свобода вступления в брак (Заявление № 445 от 2002).

Giurisprudenza di merito: il verbale di mediazione non può essere trascritto nei pubblici registri - la mediazione civile sempre più inutile?

USUCAPIONE: Se il diritto è accertato con la mediazione non è trascrivibile alla conservatoria
07 ottobre 2011
Secondo la Giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma Decr. 6563/2011) il verbale di conciliazione sottoscritto avanti al mediatore, il quali accerti l’acquisto per usucapione della proprietà o di altro diritto reale, non può essere trascritto nei registri immobiliari.


Secondo il Tribunale di Roma, infatti, l’accordo fra le parti non produce alcun effetto costitutivo, modificativo o estintivo di diritti reali, consistendo in un negozio di mero accertamento, mentre come noto l'acquisto per usucapione deve essere dichiarato con sentenza per l'appunto dichiarativa del Tribunale.

Emerge quindi un ulteriore profilo di dubbio sulla reale efficacia della mediazione civile e commerciale, che già tanti dubbi ha sollevato.

La Corte di Cassazione anticipa la Corte di Giustizia Europea sulla disapplicazione del "pacchetto sicurezza". L'inottemperanza dell'ordine di espulsione da parte dell'immigrato, anche se clandestino, non può essere punita con il carcere.

La Suprema Corte di Cassazione (Sentenza 10 agosto 2011 n. 31869) ha de facto disapplicato, peraltro in conformità di un principio enunciato dalla Corte di Giustizia Europea (vd. commento del 5/5/2011), che è pure chiamata a decidere della conformità della normativa in esame rispetto alla Dir. 2008/115, la norma contenuta nel c.d. pacchetto sicurezza che prevede addirittura il carcere in caso di plurime violazione del decreto di espulsione.

Infatti, proprio la Sentenza della Corte di Giustizia Europea del maggio 2011 aveva consacrato il principio per cui la condizione di straniero irregolare non poteva integrare ipso facto un reato, ragione per cui secondo la Corte di Cassazione il mancato adempimento del decreto di espulsione non può esso stesso configurarsi quale ipotesi di reato.

Il fatto che penda ad oggi avanti alla Corte di Giustizia Europea la questione di legittimità della norma in esame rispetto alla sopra richiamata Direttiva, secondo la Corte di Cassazione, rende opportuno l'annullamento dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in applicazione del c.d. pacchetto sicurezza, in quanto non si può non considerare l'eventuale, ed anzi più che probabile, futura cancellazione della norma. Non si può non tenere in debita considerazione il fatto che il diritto comunitario esclude espressamente che il mancato adempimento del decreto di espulsione possa integrare una ipotesi di reato.

lunedì 19 settembre 2011

Rex Law presenta: Io e te a spasso nell'universo cielo - un libro di Francesco Musella

Io e te a spasso nell'universo cielo è il titolo contenitore di una storia d'amore, a senso unico. Il racconto è costituito da quattro parti, l'una dentro l'altra, a mo' di matriosca. Cesco, il protagonista, è l'italiano tipo dei nostri giorni, l'indigeno di un paese che invecchia, età tra i cinquanta e i sessanta anni, pensionato o pensionando in fuga non solo dalla sua condizione di uomo al capolinea, ma anche dal conformismo che gli imporrebbe un fine vita tranquillo, ma grigio. Egli è certamente disilluso dai suoi miti giovanili, e tuttavia rimane ancorato a quel remoto idealismo che riversa, appunto, nella ricerca estrema di un amore unico e universale. 

http://www.ibs.it/code/9788875685614/musella-francesco/spasso-nell-universo.html

sabato 17 settembre 2011

La Cassazione punisce il curatore negligente: l'azione di responsabilità è ammissibile anche quando il curatore non sia stato preventivamente rimosso dall'incarico ed anche dopo che il rendiconto sia stato approvato

Secondo la Suprema Corte di Cassazione (Sent. 18348/2011), l'azione di responsabilità nei confronti dei curatori fallimentari può essere sempre proposta, anche se non preceduta dalla revoca del professionista ed addirittura quando il rendiconto di gestione sia già stato approvato.

Sebbene infatti l'art. 38 L.F. preveda che il curatore debba essere revocato prima dell'esercizio dell'azione di responsabilità, la norma in questione non si configura come una disposizione tassativa, ma si esaurisce in un mero consiglio normativo privo di effetti preclusivi.

In caso contrario, il curatore negligente potrebbe liberarsi delle proprie responsabilità spogliandosi del proprio incarico prima che il danno provocato al fallimento venga alla luce.


Sulla base del medesimo principio, la Corte di Cassazione ha ammesso l'azione di responsabilità anche nei casi in cui il rendiconto sia giò stato approvato.

Anche se di norma l'azione di responsabilità è proposta proprio in sede di rendiconto, tuttavia tale momento non costituisce l'unico ed esclusivo termine per l'ammissibilità dell'azione, alla luce dell'ammissibilità della scissione del controllo più propriamente contabile da quella gestionale.

E' infatti irrilevante che il rendiconto si stato approvato senza che siano stati formulati specifici rilievi critici, dal momento che sempre secondo la Corte di Cassazione l'approvazione del rendiconto non può avere un effetto liberatorio, rendendo inammissibile la successiva azione di responsabilità per mala gestio.

Anzi, la Suprema Corte nella propria decisione ha tratto espressa ispirazione dalle norme in materia di  approvazione del bilancio di società per azioni o nell'ipotesi del l'omessa contestazione degli estratti conto bancari.

I curatori fallimentari sono avvertiti.

La Cassazione punisce le scappatelle extraconiugali. Le corna al coniuge configurano un autonomo illecito civile risarcibile in via autonoma rispetto alla causa di separazione.

Secondo la Giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 18852/2011) il tradimento del coniuge si configura come un illecito civile ed in quanto tale può essere risarcito in via autonoma e, quindi, anche fuori dall'ambito del giudizio di separazione. 
Il principio consacrato dalla Suprema Corte, effettivamente, aggrava il concetto di addebito nella separazione, alzando, e non di poco, i costi e gli impatti economici della separazione.
Il tradimento, infatti, determina la violazione di diritti di rango costituzionale, quali la salute della persona tradita e la sua dignità, determinando la responsabilità di chi lo ha provocato.

Infatti, i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l'addebito della separazione.

Il principio enunciato dalla Suprema Corte ad avviso di chi scrive potrebbe avere applicazione estensiva, quanto meno con riferimento alle convivenze more uxorio, dal momento che il rapporto di fiducia ed il livello di compenetrazione spirituale intercorrente tra i conviventi more uxorio non è meno pregnante e degno di tutela di quello proprio del rapporto coniugale.

Escludendo l'applicabilità di tale principio alle convivenze more uxorio, si configurerebbe una aperta violazione del principio di uguaglianza formale (art. 3 comma I Cost.), assicurando una tutela inferiore al partner tradito nella coppia non coniugata rispetto al coniuge.

Infatti, il risarcimento del danno in caso delle cosiddette corna opera per la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, quale, secondo la Suprema Corte, il diritto alla salute e la dignità del partner tradito e rappresenta una fattispecie di danno autonoma, risarcibile, si ribadisce, anche al di fuori del giudizio di separazione o divorzio.


mercoledì 14 settembre 2011

Corte di Cassazione Penale: La società paga per le malefatte dell'Amministratore anche per i reati non contemplati dal D.lgs. 231/2001. Verso l'applicazione analogica del D.lgs. 231/2001

Secondo la Corte di Cassazione (n. 28731 del 19 luglio 2011), ha confermato la confisca per equivalente ex D. Lgs. 231/2001 nei confronti di un ente genovese, confermando così la decisione dei giudici di merito, ritenendo l'ente stesso responsabile per l'occultamento o distruzione di documenti contabili finalizzato alla commissione di evasione fiscale, perpetrato dal legale rappresentante della società, e ciò nonostante il reato in questione non sia espressamente previsto .
 
La Giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che nel caso di specie non potesse essere invocata l'assenza di responsabilità dell'ente che pure si appellava al fatto che il reato che aveva portato alla predetta sanzione non era contemplato dal D.lgs. 231/2001.
 
La Suprema Corte ha infatti opposto a tale eccezione che il D. Lgs. 231/2001 ha introdotto un nuovo genere di autonoma responsabilità amministrativa dell'ente in caso di commissione, nel suo interesse o vantaggio, di un reato da parte di soggetto che riveste nell'ente una posizione apicale; la responsabilità amministrativa dell'ente peraltro non si configura come una forma di responsabilità oggettiva, in quanto necessita in ogni caso di una carenza organizzativa interna. che si concretizza nel fatto che non sono state predisposte le procedure per evitare la perpetrazione dell'illecito penale.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha evidenziato cheil D.lgs. 231/2001 è applicabile, con conseguenti profili di responsabilità amministrativa dell'ente, in tutti i casi in cui i reati commessi nell'ambito di una società producano conseguenze patrimoniali che ricadono sulla società, nei confronti della quale è indiscutibile che si sia ravvisato un vantaggio e/o un interesse dall'atteggiamento del suo amministratore.
 
Pertanto, in tali ipotesi, gli enti non possono mai considerarsi terzi estranei al reato e risponderanno ex D.lgs. 231/2001.

martedì 2 agosto 2011

Il consenso informato assurto a diritto inviolabile dell'uomo

La Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. III, 28/07/2011, n. 16543) ha nuovamente affermato il principio in forza del quale il diritto al consenso informato deve essere sempre e comunque rispettato dal personale sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona.

Casi di urgenza che, secondo la Suprema Corte, possono profilarsi anche nell'ambito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, ma in relazione al quale, per eventi sopravvenuti ed imprevedibili, siano insorte complicanze che mettono a serio rischio la vita del paziente.

Infatti, solo per la tutela della vita umana, bene che riceve una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell'ordine giuridico e del vivere civile, si può derogare al diritto al consenso informato.

Deroghe al consenso informato possono naturalmente profilarsi anche in caso di trattamento sanitario obbligatorio. 

Salvo siffatte ipotesi, il consenso informato è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, ai fini della sua esclusione, che l'intervento non concordato sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto. 

Infatti, il deficit di informazione che non mette il paziente in condizione di assentire o meno al trattamento, determina sempre e comunque una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali la sua esistenza.

La mancanza della richiesta del consenso informato per la esecuzione di un intervento chirurgico costituisce, secondo la Suprema Corte, una inosservanza del diritto inviolabile dell'uomo a vedere tutelato il suo diritto alla salute con dignità propria dell'essere persona. 

Ne consegue che, come anticipato, l'intervento in difetto di richiesta è consentito nella sola ipotesi in cui si verifichi, durante la esecuzione di un intervento già programmato ed assentito, un fatto nuovo che ponga a repentaglio la vita del paziente e venga ritenuto medicalmente indispensabile.

Pertanto, al di fuori di tale ipotesi e di quelle di cui si è in precedenza dissertato, l'atto terapeutico, quand'anche necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano poi derivate conseguenze dannose per il paziente, qualora non sia stato preceduto da adeguata informazione, determina un'ipotesi di inadempimento dell'obbligo informativo e tale carenza di informazione assume una valenza causale sui danni subiti dal paziente, determinando un nesso condizionalistico causale tra i danni e la violazione degli obblighi informativi.

lunedì 1 agosto 2011

The illegal staying imigrants can get married in Italy: possible to get married without visa or permit of staying


The Italian Costitutional Court (Sent. n. 245/2011) declared the illegittimacy of the art. 116 cod. civ., regarding the Italian Costitution, in the measure that it allows only the regoularly staying foreigners to contract marriage on the italian territory.

Pursuant to the Costitutional Court, in fact, the marriage rapresents expression of the freedom and liberty of every human, so that the right to contract ad lib the marriage itself is defended, protected and recognized by the Costitution (art. 2, 3, 29), due to the fact that the marriage is and must be included among the inviolable human rights, typified by the character of the universality and the absolutness.

According to the Costitutional Court, the Italian Republic aims at and eases up the way to the making of the family and denies and fights each kind of limits to the freedom of contracting marriage, which is frustrated and held back by the rule under discussion.

The freedom and liberty to contract marriage is consecrated even by the Human Rights Bill and by the European Union Treaties, pursuant to which the marriage liberty is a right that must be assured and warranted without if or buts so that the legislations of each State cannot provide unreasonable conditions and restrictions upon this right.

The Costitutional Court itself had already previously stated that the Italian Republic can surely provides rules which regoulate the entrance and stay of foreigners imigrants, but never with unreasonable rules which clashes with International duties provided by treaties subscribed and signed up (Sebt n. 61/2011, n. 187/2010, n. 306/2008).

Anyhow, the rules which regulate the entrance and stay of imigrants from countries not included in European Union must be the result of reasonable trade off between different interests, all recognized by Costitution, especially when it comes up to rules which influence and bear on human rights as such as the liberty of contracting marriage (Sent. n. 445 del 2002).

martedì 26 luglio 2011

Corte Costituzionale: è illegittimo l'obbligo del regolare soggiorno in italia per contrarre matrimonio: lo straniero extracomunitario non regolarmente soggiornante e clandestino può contrarre matrimonio in Italia

La Corte Costituzionale (Sent. n. 245/2011) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 116 cod. civ. nella parte in cui richiede che possa contrarre matrimonio solo lo straniero che sia in possesso di un documento attestante il regolare soggiorno in Italia.

Secondo la Consulta infatti la norma in esame infatti contrasterebbe:
con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;
con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza;
con l’art. 29 Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico;
con l’art. 31 Cost., perché interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre matrimonio;
con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

In particolare, sempre secondo la Consulta, il matrimonio costituisce espressione della libertà e dell’autonomia della persona, ed il diritto di contrarre liberamente matrimonio è pertanto oggetto della tutela inderogabile garantita dagli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nei diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati dall’universalità e dall'assolutezza.

Peraltro, la Carta Costituzionale italiana, all’art. 31 Cost., nel sancire che la Repubblica agevola la formazione della famiglia, esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale, libertà chiaramente ostacolata dalla previsione di cui all'art. 116 cod. civ. in esame.

La libertà di contrarre matrimonio trova ulteriore fondamento anche nell’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nell'art. 12 della CEDU e nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona.

In particolare, con specifico riferimento all’art. 12 della CEDU, tale norma contempla la libertà matrimoniale quale diritto e libertà che devono essere assicurati senza distinzione di sorta. Lo stesso art. 12 della CEDU, pur prevedendo che tale diritto debba essere esercitato nell’ambito della legislazione nazionale, non consente che le legislazioni dei singoli Stati possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli.

La Corte Costituzionale già in precedenza (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) aveva affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia.


Tali norme, però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando si tratti di norme che siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del 2002).

Vero è secondo la Consulta che la essenziale differenza esistente tra il cittadino e lo straniero può giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc (l’individuazione delle quali resta comunque collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici - sentenza n. 62 del 1994 - quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione).

Tuttavia, resta pur sempre fermo che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010).

Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.

Ed infatti, il Testo Unico sull'immigrazione prevede che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole.

Inoltre, la Corte Costituzionale ha senz'altro adeguato il proprio orientamento a quello della Corte di Giustizia Europea, la quale ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati membri non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza).

Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio e della relazione affettiva tra i nubendi, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.

Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto dalla norma di cui all'art. 116 cod. civ., dal momento che il legislatore – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero – ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.

venerdì 22 luglio 2011

Costituisce reato la condotta del genitore affidatario del minore volta ad ostacolare il diritto di visita del genitore non affidatario

Secondo la Corte di Cassazione (Sent. 26810/2011), il genitore affidatario, qualora non ottemperi il provvedimento del Tribunale Civile che regola il diritto di visita dell'altro genitore, strumentalizzando o addirittura adducendo il rifiuto dei bambini di vedere l'altro genitore, commette il reato di cui all'art. 81 e 388 c.p.

La responsabilità penale sussiste anche se il genitore affidatario eluda il provvedimento giudiziale approfittando dei "rifiuti" del minore, in quanto in tali ipotesi si profila senz'altro una condotta dolosa volta all'inottemperanza del provvedimento giudiziale.

L'elemento piscologico del dolo sussiste in tutti i casi in cui nel caso di specie si verifichi  la mancanza di una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affidatario alla riuscita delle visite e degli incontri dell'altro genitore stabiliti con provvedimento del giudice civile, collaborazione essenziale soprattutto nel caso di un minore in tenera età, nel cui interesse si prevede che entrambi i genitori debbano mantenere e coltivare un rapporto affettivo con il proprio figlio.

L'esclusione del dolo non appare giustificata in tutti i casi in cui il genitore affidatario, nell'impedire al genitore non affidatario il diritto di visita ricusato dal minore, non sia stato effettivamente mosso dalla necessità di tutelare l'interesse morale e materiale del minore medesimo.

La decisione della Corte di Cassazione rappresenta una nuova arma di difesa per il genitore non affidatario di tuelera il proprio diritto alla paternità, assurto a grado di diritto della personalità dalla Corte dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino,contro le condotte vendicatrici del genitore affidatario che purtroppo molto spesso si servono dei figli per consumare la propria guerra personale contro l'ex.

Il Giudice può valutare ex officio la sussistenza di un concorso di colpa in materia di circolazione stradale

Secondo la Suprema Corte (Cass. civ. Sez. III, 15/07/2011, n. 15674), in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti, la presunzione di concorso in pari grado di colpa di cui all'art. 2054, comma 2, c.c. - 1227 c.c. a carico dei conducenti dei mezzi coinvolti in un sinistro rappresenta un criterio di distribuzione delle responsabilità che il Giudice deve applicare qualora l'istruttoria non ha consentito di accertare le specifiche modalità dell'evento dannoso, nonché l'incidenza e la misura delle singole condotte colpose. 

Ne consegue che il Giudice, anche nel caso in cui l'istruttoria abbia evidenziato la responsabilità di uno solo dei conducenti coinvolti nell'incidente, deve accertare pur sempre, anche ex officio, che il comportamento di guida dell'antagonista sia immune da censure.

In materia di fideiussione non opera il beneficium excussionis se il debitore principale è soggetto a procedure concorsuali

Secondo la Suprema Corte (Cass. civ. Sez. III, 18/07/2011, n. 15731), il beneficio della preventiva escussione non può essere opposto dal fideiussore in caso di sottoposizione del debitore principale a procedura concorsuale, ove non vi siano ed ove non siano dal fideiussore indicati beni del debitore principale ancora suscettibili di essere assoggettati ad azione esecutiva individuale da parte del creditore.

Il padre che non provvede al mantenimento dei figli minori perché in oggettive difficoltà economiche non risponde del reato ex art. 570 c.p. perché il fatto non sussiste

La Corte di Cassazione (Cass. Pen. 27051/2011) ha di recente affermato un principio di diritto rivoluzionario in materia di obbligo al mantenimento dei figli minori, nel caso in cui il soggetto tenuto al mantenimento, nell'ipotesi di indigenza del medesimo.

Secondo la Suprema Corte, l’obbligo di prestazione dei mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore presuppone, infatti, la capacità economica dell’obbligato, con la conseguenza  che assume rilievo, ai fini di sanzionare penalmente l’inadempimento, che la mancata corresponsione delle somme dovute sia da attribuire all’indisponibilità, persistente, oggettiva, ed incolpevole, di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita.

Qualora nel merito venga accertata una obiettiva ed incolpevole incapacità economica del soggetto obbligato, ne consegue che l’imputato deve essere assolto dal reato ascrittogli con la formula perché il fatto non sussiste.

Circolazione stradale e sinistri: sono risarcibili anche i danni futuri

Secondo la Suprema Corte (Sent. 12690/2011) sono risarcibili i danni futuri consistenti nelle spese vive che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per cure ed assistenza tutte le volte in cui il giudice accerti - dandone adeguatamente conto nella motivazione - che tali spese, la cui liquidazione andrà necessariamente operata in via equitativa, saranno sostenute secondo una ragionevole e fondata attendibilità a seguito di una valutazione prognostica la cui prova dovrà essere fornita dal danneggiato.

venerdì 15 luglio 2011

Foreigners and Immigration: Can people condemned obtain the release or the renewing of the permission of staying in Italy


As well known fact, the Bossi-Fini law provided that people condemned for serious crimes, concerning drugs traffics, sexual arrassing, illegal imigration or prostitution cannot stay in Italy and cannot renew the permission of staying.

The application of this principle is automatic and it is enough the existence of a jail sentence for one of the crimes as above described to impede the release or the renew of the permission of staying.
However Rex Law can’t help but asking if is not only morally but also ask Eppure Rex Law legally correct to provide an automatic system to deny the permission of staying’s release/renew, based exclusively on the existence of sentences, regardless of actual dangerousness of the immigrant.
According to my point of view, the automatism as above descrive should be reviewed, even in light of recently issued principles expressed by the European Justice Court, pursuant to it’s not possible to proceed with the expulsion of the foreigner from the territory of an European Country if it’s not ensured by a Judge the objective fact that the foreigner person represents a menace for the society.
It follows that the expulsion of the foreigner condemned for above described crimes is possible only in presence of law and order’s reasons, whose existence must be, as previously told, ought to be checked on by a Judge.
This principles were taken in by TAR of Lombardia (Decision issued on april 16th 2008), which stated that new elements come in must be considered in sight of the release or renew of permission of staying, although the jail sentence previously occurred.

Moreover, the Costitutional Court, with decision 27/4/2007 n. 143, according with a previous decision of the Consiglio di Stato (Supreme Administrative Court) 7/6/2006 n. 3412 stated that the regulation of immigration must be read in light of the European Directives 2003/109/CE and 2003/86/CE.
The decision of the Supreme Administrative Court stated that, although the presence of an objective obstacle to the renewing of the permission of staying, represented by a jail sentence, must be given relevance to the come in circumstance that new positive elements occurred in the foreign person’s life who is not an actual menace for the society and has found a job, conducting a regular life.

To be true, in the administrative proceeding, new facts are not usually considered and the decisions are automatically taken in light of the state of facts without considering in any way come in circumstances newly occurred.

Nonetheless, can’t be denied that the Public Administration’s decisions can be appealed and in the administrative sue is checked on the whole claim and the whole demand and not only the appealed provision.

It follows that the most recently issued decisions of the Administrative justice underlined that on subject of permission of staying renewing or release refusing, it’s the law itself (art. 5 law 286/1998) to oblige the Public Administration to check on newly occurred in come new elements which allow the release or the renewing of the the permission of staying, of course if the foreigner person underline the presence of this new elements (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI - 6/5/2008 n. 1990).

In fact, if the criminal behaviour of the foreigner was only episodic – like a once in a life time mistake – and the foreigner has found a job since the moment of his entrance in Italy and after his jail sentence he lived in peace and tranquillity without troubles, showing he is at the time reliable and totally integrated in the society, nothing should impede the renewing or the release of the permission of staying.
For further information contact Rex Law to the following email address: renatomusella@hotmail.com.

mercoledì 13 luglio 2011

Stranieri - Immigrazione: Condanne penali e rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno

La Legge Bossi - Fini come noto ha a suo tempo modificato ed integrato l’art. 4, comma 3, del Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), prevedendo che per reati previsti dall’articolo 380 commi 1 e 2 c.p.p. – per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza - ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite non può entrare in Italia, oppure non può rinnovare il permesso di soggiorno.

La norma in esame introduce un motivo ostativo al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno allo straniero di applicazione automatica. 

Eppure Rex Law si chiede se sia giuridicamente corretto prevedere un meccanismo automatico di diniego del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, basato sul mero elemento oggettivo della presenza di condanne penali, a prescindere dalla effettiva pericolosità sociale dello straniero.


L'automatismo illo tempore introdotto dal legislatore andrebbe rivisto, anche alla luce dei principi espressi da alcune Sentenze della Corte di Giustizia Europea, secondo cui deve essere valutata l'esistenza di un effettivo grado di pericolosità dello straniero prima di procedere al suo allontanamento dal territorio di uno Stato membro.

Ne consegue che l'allontanamento è possibile solo in presenza di motivi di ordine pubblico, la cui sussistenza deve essere valutata nel caso concreto dall'Autorità Giudiziaria.


Il TAR Lombardia con la Sentenza del 16 aprile 2008, ha recepito l'orientamento affermato dai Giudici della CGE ed ha valorizzato la norma di cui all’articolo 5 comma 5 del Testo Unico sull’Immigrazione, ove si fa riferimento a "sopraggiunti nuovi elementi" che possano permettere il rilascio o il rinnovo del permesso nonostante la mancanza di alcuni requisiti.

Peraltro già la Corte Costituzionale, in un caso che riguardava l'automatismo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno derivante da condanne penali previsto dagli artt. 4 comma 3 e 5 comma 5 del D. Lgs. 286/98, con ordinanza 27/4/2007 n. 143 - richiamando quanto affermato nella decisione 7/6/2006 n. 3412 del Consiglio di Stato - ha restituito gli atti al giudice a quo per il riesame della questione alla luce della normativa sopravvenuta, ovvero i decreti legislativi 8/1/2007 n. 3 e n. 5, attuativi rispettivamente delle direttive 2003/109/CE e 2003/86/CE.

La Corte ha ritenuto applicabile tale normativa, in deroga al principio generale dei giudizi amministrativi del tempus regit actum in quanto "pur non essendo da misconoscere il modello impugnatorio dei giudizi concernenti l'asserita illegittimità dei provvedimenti di diniego del permesso di soggiorno o del relativo rinnovo, si ritiene che il loro oggetto non sia solo l'atto impugnato, ma si estenda alla pretesa sostanziale posta a base della impugnazione".

La decisione del Consiglio di Stato ivi citata statuisce che pur essendo incontestabile che alla data di adozione dell'impugnato provvedimento sussisteva una ragione ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno, non può risultare priva di rilevanza la circostanza che siano poi sopravvenuti i presupposti per il rilascio del permesso.

Vero è che la forma impugnatoria del processo amministrativo induce, di norma, a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati alla data di adozione degli stessi, senza attribuire rilevanza alle circostanze sopravvenute. Tuttavia, è innegabile che, fermo restando il modello impugnatorio, il processo amministrativo si sia nel corso degli anni evoluto in modo tale che il suo oggetto non sia solo l'atto impugnato, ma si estenda alla pretesa sostanziale posta alla base dell'impugnazione.

La giurisprudenza ha evidenziato che in tema rifiuto di permesso di soggiorno o di suo rinnovo, l'art. 5 del D. Lgs. 286/98 impone all'amministrazione di considerare eventuali, sopraggiunti nuovi elementi - mancanti ad un primo esame e che risultino invece successivamente posseduti - tali da consentire il rilascio del provvedimento, sempre che le relative circostanze (integranti ex post i requisiti) siano stati evidenziati dall'interessato.

E' stato coerentemente affermato che, con l'inciso di chiusura contenuto nell'art. art. 5 comma 5 del D. Lgs. 286/98 "sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio", il legislatore ha chiaramente inteso porre una clausola di salvaguardia per i soggetti che - all'attualità - dimostrino il possesso dei requisiti per il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI - 6/5/2008 n. 1990).

Se la condotta dello straniero sanzionata dall'Ago penale è episodica ed occasionale, ed incontestato sia lo svolgimento,da parte dello straniero di una regolare attività lavorativa fin dal suo ingresso nel nostro paese, sia il successivo mantenimento di una condotta pacifica e tranquilla, con conseguente emersione di consistenti indizi di affidabilità ed inserimento sociale, nulla dovrebbe ostare al rilascio del rinnovo del permesso di soggiorno, pur in presenza di una condanna penale.

Il Tar Lombardia, nella sentenza Sez. I - 16/4/2008 n. 384 ha recentemente esaminato un caso nel quale peraltro lo straniero aveva commesso il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. 

La pronuncia come evidenziato ha sottolineato che all'interno della norma di cui all'art. 4 comma 3 del D. Lgs. 286/98 - la quale non lascia margini di discrezionalità in relazione all'entità della pena, all'abitualità o alla segnalata occasionalità della condotta sanzionata, nonché circa la valutazione della personalità complessiva dell'imputato - non manca tuttavia la previsione di una possibile deroga, in via eccezionale, ove si ravvisi la "sopravvenienza di nuovi elementi", evidentemente da valutare caso per caso, in rapporto ai dati emergenti dagli atti. 

Se poi lo straniero ha trovato un posto di lavoro in data antecedente al diniego, in tale situazione, il diniego non deve ritenersi atto vincolato, sussistendo la possibilità di una valutazione di merito, ragionevolmente indirizzata ad una diversa conclusione della procedura di rinnovo di cui trattasi, dovendo ritenersi erronea - alla luce di tutte le circostanze sopra esposte - l'avvenuta qualificazione dell'appellante come persona irreversibilmente pericolosa e non inserita, legalmente, nel contesto sociale.

Per maggiori informazioni ed un preventivo contattare Rex Law all'indirizzo: renatomusella@hotmail.com

Separazione e divorzio: può essere oggetto di assegnazione solo la casa coniugale

Secondo una recentissima decisione della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 04/07/2011, n. 14553), l'assegnazione della casa familiare, poiché risponde all'esigenza di conservare l'habitat domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è unicamente consentita in relazione all'immobile che abbia costituito centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità.

Pertanto, è viziata per difetto di motivazione e contraddittorietà la pronuncia del Giudice di merito che, dopo aver ritenuto che un immobile non costituisce centro di affetti, interessi e rapporti la cui esistenza e permanenza legittima solitamente l'assegnazione dello stesso in favore del coniuge richiedente, disposta ugualmente l'assegnazione dello stesso.

Il luogo di consegna della merce determina la giurisdizione competente a decidere delle causa in materia di commercio internazionale

Secondo la giurisprudenza di merito (Tribunale di Novara, n. 464/2011) nelle ipotesi di contratti di compravendita internazionale di merci intercorsi tra società che prevedono come luogo di esecuzione della prestazione diversi stati, ai fini della individuazione della giurisdizione competente, deve tenersi conto del “luogo che presenta il collegamento più stretto con il contratto” nell'accezione di “luogo di consegna ove ha sede il distributore”.

Infatti, anche nell’ipotesi in cui la consegna della merce venga effettuata direttamente presso il terzo acquirente, gli aspetti logistici, amministrativi e commerciali della catena distributiva vengono gestiti presso la sede del distributore, sicché è presso di questa che trova attuazione la prestazione caratterizzante il contratto.

La sentenza in esame recepisce il principio affermato dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione secondo cui, in caso di più obbligazioni derivanti dal medesimo contratto, è l’obbligazione principale e caratterizzante il contratto a dover essere presa in considerazione ai fini della determinazione della giurisdizione, in modo da garantire una riconduzione ad unità, in sede processuale, del rapporto controverso ed evitare la frammentazione.

Alla luce dei principi della Suprema Corte, il luogo di consegna della merce diventa un criterio di collegamento fondamentale, che attrae tutte le domande relative ad un determinato titolo contrattuale.

E secondo la Corte di Giustizia Europea il luogo di consegna coincide con il luogo di esecuzione della prestazione principale sotto il profilo economico.

domenica 3 luglio 2011

Riconosciuto il danno da perdita di chance al passante investito anche se non dispone di un impiego al momento del sinistro

Secondo la Suprema Corte di Cassazione (Sent. 14278/2011), il soggetto, nel caso di specie un passante, che a subito danni a seguito di sinistro stradale ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance anche se al momento del sinistro non svolgeva alcuna attività lavorativa.

Il danno alla persona, infatti, secondo la Giurisprudenza di Legittimità, deve essere risarcito in maniera integrale con la conseguenza che all'infortunato deve essere riconosciuto il danno da da perdita di chance per riduzione della capacità lavorativa anche in assenza di un'attuale impiego.

Le conseguenze dell'abolizione del reato di immigrazione clandestina dopo la Sentenza della Corte di Giustizia Europea

Il 3/5/2011, la Corte di Giustizia ha dichiarato l'illegittimità rispetto al Diritto Comunitario della normativa nazionale che prevede il carcere per i cittadini di paesi extracomunitari per il solo fatto di non aver ottemperato nel termine di legge l'ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro.

Nell'ordinamento giuridico iltaliano la nota Legge Bossi-Fini aveva introdotto il principio di punizione e costrizione fisica nei confronti degli immigrati che non obbediscono all’ordine di lasciare l’Italia ed aveva introdotto il reato di clandestinità, punito con la pena detentiva fino a 5 anni nel massimo edittale.

Era palese il contrasto tra le previsione contenute nella Legge Bossi-Fini e la Direttiva Europea 2008/115/CE, successivamente emanata, che ammetta il solo trattenimento fisico dei cittadini clandestini solo per il tempo strettamente necessario alla procedura di rimpatrio.

La Corte di Giustizia Europea ha definitivamente posto il rilievo il conflitto tra normativa comunitaria e normativa interna, disponendo che la direttiva 2008/115/CE deve essere interpretata nel senso che la normativa di uno Stato membro non può prevedere l’irrogazione della pena della reclusione per la sola ragione che un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno sia irregolare, abbia violato l’ordine di lasciare il Paese entro un determinato termine.


Di conseguenza sono stati o sono in via di interruzione tutti i processi instaurati contro i clandestini, e ciò in virtù della “abolitio criminis”.

Sempre in applicazione di tale principio, le condanne già inflitte sono in corso di annullamento, in applicazione dell’art. 2 c.p. in fornza del quale nessuno può essere punito per un fatto non previsto dalla legge come reato.

Il Tribunale di Roma sfida la Corte di Cassazione sugli effetti della cancellazione dal registro delle imprese delle società di persone

Il Tribunale di Roma (Trib. Roma Sez. III, 23/05/2011), in materia di effetti dell'estinzione della società, detta un nuovo principio in materia di applicazione alle società di persone della normativa dettata in materia di effetti estintivi della cancellazione dell'ente dal registro delle imprese.

Come noto, con riferimento alle società di capitali, ai sensi dell'art. 2945 cod. civ., la cancellazione dal registro delle imprese produce l'effetto costitutivo dell'estinzione irreversibile della società, anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti. 

Tale norma, peraltro, non disciplinando le condizioni per la cancellazione, ma gli effetti della stessa, vale a dire la situazione giuridica della società cancellata, per costante Giurisprudenza, trova applicazione anche in riferimento alle cancellazioni intervenute in epoca anteriore alla sua entrata in vigore. 

Infatti, l'art. 2945 cod. civ., è considerata norma innovativa ed ultrattiva, che disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore.

Tuttavia, secondo il principio dettato dal Tribunale di Roma, con riferimento alle società di persone, l'estinzione della società non si produce per effetto della relativa cancellazione dal registro delle imprese, laddove tale formalità non sia preceduta dalla definizione di tutti i rapporti di debito e di credito facenti capo all'agente, trova applicazione solo in riferimento alle sole società di persone, alle quali non si estende l'efficacia dell'inequivoca previsione dell'articolo 2495 c.c. 


Pertanto, non è la cancellazione dal registro delle imprese della società di persone a determinare l'estinzione dell'ente, l'effetto costitutivo dell'estinzione è prodotto esclusivamente dalla definizione dei rapporti patrimoniali.

La sentenza del Tribunale di Roma si pone in leggero contrasto con il recente orientamento della  Suprema Corte di Cassazione (Sent. 4062/2010).

Secondo la Suprema Corte, l'art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, è norma innovativa e ultrattiva, che disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004).


Con particolare riferimento alle società di persone, cui - secondo la Corte di Cassazione, la norma in oggetto è senz'altro applicabile per analogia, esclusa l'efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, può comunque affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell'attività dell'impresa collettiva, opponibile dal 1 luglio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ai sensi degli artt. 2312 e 2324 c.c. 

In forza di tali norme si giunge ad una presunzione del venir meno delle loro capacità processuale e legittimazione, anche nel caso in cui perdurino rapporti o azioni in cui le stesse società sono parti.

La natura costitutiva riconosciuta per legge a decorrere dal 1 gennaio 2004, degli effetti delle cancellazioni già iscritte e di quelle future per le società di capitali che con esse si estinguono, comporta, anche per le società di persone che, a garanzia della parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società, si abbia una vicenda estintiva analoga con la fine della vita di queste contestuale alla pubblicità, che resta dichiarativa.

Per queste ultime, come la loro iscrizione nel registro delle imprese ha natura dichiarativa, anche la fine della loro legittimazione e soggettività è soggetta a pubblicità della stessa natura, desumendosi l'estinzione di esse dagli effetti della novella dell'art. 2495 c.c., sull'intero titolo 5^ del Libro quinto del codice civile dopo la riforma parziale di esso, ed è l'evento sostanziale che la cancellazione rende opponibile ai terzi (art. 2193 c.c.) negli stessi limiti temporali indicati per la perdita della personalità delle società oggetto di riforma".

Il Commissario Governativo è responsabile nei confronti dei soci della Cooperativa per gli atti di mala gestio compiuti ed anche se non è nominato dall'Assemblea dei soci è responsabile verso la stessa

Secondo la giurisprudenza di merito, in materia di società cooperative, nei confronti del Commissario governativo, in caso di sua nomina per fronteggiare vicende critiche nella vita della Cooperativa, ben può profilarsi una responsabilità di natura contrattuale nei riguardi della società che il Commissario gestisca in sostituzione degli amministratori revocati. 

Infatti, se, da un lato, deve rilevarsi l'insussistenza di un rapporto fiduciario fra il Commissario governativo e l'assemblea dei soci della cooperativa, che invero in questi casi è esautorata dal potere di nomina dell'organo amministrativo (art. 2542 c.c.), è, dall'altro, altrettanto vero che il Commissario esercita gli stessi poteri degli amministratori e può compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, proprio in quanto organo amministrativo della società a tutti gli effetti. 

Peraltro dal momento che l'azione di responsabilità ex art. 2393 c.c. verso il Commissario governativo ha natura contrattuale, conseguentemente, in tema di onere della prova, su chi la promuove - i soci della Cooeprativa - grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sul Commissario l'onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti.

La conclusione cui giunge il Tribunale di Rome è molto importante in quanto, oltre a legittimare i soci della Cooperativa ad instaurare una causa di responsabilità verso il Commissario Governativo nei casi di mala gestio, chiarendo la natura comunque contrattuale del rapporto tra lo stesso Commissario ed i soci, determina anche la distribuzione dell'onere della prova circa i fatti di mala gestio contestati tra i soci ed il Commissario.

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