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giovedì 31 marzo 2011

La risarcibilità del danno da fermo tecnico a seguito di sinistro stradale non è automatica

In tema di risarcimento danni da incidente stradale, il danno da fermo tecnico del veicolo incidentato non può considerarsi sussistente "in re ipsa", quale conseguenza automatica dell'incidente, ma deve essere specificamente provato.

La prova, secondo la Suprema Corte, attiene tanto al profilo della inutilizzabilità del mezzo meccanico in relazione ai giorni in cui esso è stato sottratto alla disponibilità del proprietario, tanto a quello della necessità del proprietario stesso di servirsene, così che, dalla impossibilità della sua utilizzazione, ne sia derivato un danno effettivo.


Tuttavia, con tale decisione, la Suprema Corte ha aderito all'orientamento secondo cui il danno da fermo tecnico può essere liquidato in via equitativa, indipendentemente da una prova specifica in ordine al danno subito, in quanto, anche durante la sosta, egli è tenuto a sopportare le spese di gestione del veicolo, che è, altresì, soggetto ad un naturale deprezzamento di valore.

La Corte di Cassazione contro l'applicazione del principio della continuazione del reato al Codice della Strada

Con due sentenze gemelle, n. 4725 e n. 5252 del 2011, la Corte di Cassazione ha affermato che alle sanzioni amministrative al Codice della Strada non si può applicare l'istituto della continuazione del reato di cui all'art. 81 c.p.nel caso in cui un soggetto compia più infrazioni, alla medesima disposizione, in un breve lasso di tempo.

Tale principio ha trovato applicazione soprattutto per le violazioni al Codice della Strada aventi ad oggetto la violazione dei divieti di accesso nelle ZTL ed ai limiti di velocità, quando accade che un soggetto trasgredisca ripetutamente la medesima disposizione in un breve lasso di tempo.

Con queste sentenze viene quindi messa la parola fine ai voli pindarici degli automobilisti che, con l'invocazione di tale principio, accolto spesso e volentieri dai Giudici di Pace, riuscivano a farsi annullare numerose violazioni.

Opposizione a decreto ingiuntivo: le Sezioni semplici contro le Sezioni Unite sui termini di costituzione dell'attore

Le Sezioni Semplici della Corte di Cassazione sfidano le Sezioni unite sul termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo. Secondo la Suprema COrte con la Sentenza n. 6514/2011 il termine di costituzione dell'attore in opposizione a decreto ingiuntivo non può automaticamente ridursi della metà perché in tal modo si incorrerebbe in una disparità di trattamento tra i giudizi di opposizione iniziati prima della nota sentenza 19246/2010 e quelli iniziati successivamente, determinando quindi una dispartià di trattamento tra situazioni analoghe, con una palese lesione dei principi del giusto processo. Pertanto, visto l'art. 374 c.p.c. la questione è stata rimessa di nuovo alle SS.UU.

Stranieri: il T.A.R. Lombardia punisce il datore di lavoro che non si attiva per l'emersione del lavoratore straniero

Il Tribunale Amministrativo Regionale Lombardo (T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, 28/03/2011, n. 817) punisce l'inerzia del datore del datore di lavoro che precluda, nel corso del procedimento di emersione dello straniero di cui all'art. 1-ter del D.L. n. 78 del 2009, convertito nella legge n. 102 del 2009, all'Amministrazione la possibilità di concludere la procedura mediante l'adozione del provvedimento finale di emersione del cittadino straniero.

In tal senso, invero, dal momento che il procedimento di emersione ha pacificamente avvio a seguito dell'esclusiva iniziativa del datore di lavoro, una tale inerzia ben può essere intesa quale sua eventuale esplicita volontà di non dare più corso al medesimo.

mercoledì 30 marzo 2011

Il casellario giudiziario bussola delle imprese che partecipano alle gare d'appalto pubbliche

Il Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. V, 24/03/2011, n. 1800), nell'ambito della lotta alla criminalità ed alle infiltrazioni malavitose negli appalti, legittima l'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia omesso di dichiarare due condanne penali a carico dell'amministratore unico. 

Utilizzando l'ordinaria diligenza, l'impresa ha l'onere e la possibilità di verificare i precedenti penali del proprio legale rappresentante con la visura del casellario.

Secondo il Giudice Amministrativo la mendacia della dichiarazione, contraddetta dalle risultanze penali, non può essere esclusa da comportamento negligentemente omissivo del concorrente.

Comprare casa o prenderla in locazione? Tertium datur: locazione con patto di futura vendita


La locazione con patto di futura vendita, fattispecie sviluppatasi tendenzialmente nell’ambito dell’edilizia popolare, si configura come un tipo contrattuale in media re tra la locazione e la vendita con patto di riservato dominio.

Infatti, tale fattispecie contrattuale apparentemente presenta gli elementi integrativi della locazione, ma nella sostanza è idonea a produrre gli effetti propri di un contratto di vendita con patto di riservato dominio, di cui riproduce sostanzialmente la causa.

Peraltro all'ultimo comma dell'art. 1526 cod. civ., norma dettata in materia di vendita con patto di riservato dominio - la più celebre vendita a rate - è prevista una codificazione sui generis della fattispecie, in quanto la norma in esame si applica "anche nel caso in cui il contratto sia configurato come locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita al conduttore per effetto del pagamento dei canoni pattuiti."

Il tipo contrattuale in questione sembra quindi riconducibile entro lo schema della compravendita, con particolare riferimento alla vendita con riserva della proprietà, ragione per cui si può affermare che la causa iuris del contratto di locazione in siffatte fattispecie avrebbe un ruolo residuale, rilevando solo per l'eventualità in cui l'acquirente non riuscisse a portare a termine il pagamento (ovvero perdesse interesse al perfezionamento dell'acquisto).
Tuttavia, proprio per tale ragione, la Giurisprudenza configura il contratto di locazione con patto di futura vendita quale contratto di locazione in cui sia contenuto un vero e proprio patto di opzione, in forza del quale venga attribuito al conduttore il diritto di procedere all'acquisto del bene ad un prezzo prestabilito, con la previsione che le rate del canone già pagate possano essere imputate (in tutto o in parte) ad acconto sul prezzo.

E' chiaro che secondo tale interpretazione viene sostanzialmente operata una conversione di un contratto, qualificabile come locazione, in una vendita.

Il locatore-venditore viene in tal modo a trovarsi in una situazione di soggezione con riferimento al conduttore-acquirente che, inversamente, è titolare di un diritto potestativo in ordine all'acquisto, fermo restando che egli può ben limitarsi a corrispondere i canoni, permanendo nella propria qualità di conduttore, fino all’esercizio del patto d’opzione (a differenza di quanto accade nella dinamica della vendita con riserva della proprietà: cfr. art.1525 cod.civ. ).

Il tipo di qualificazione giuridica del contratto è fondamentale per valutare quale disciplina legislativa applicare nel caso concreto, vale a dire quella relativa alla locazione sino all’esercizio dell’opzione di acquisto ovvero quella della vendita con patto di riservato dominio.

Alla luce del contrasto giurisprudenziale e dottrinale sopra evidenziato, la soluzione al problema risiede tendenzialmente nella volontà delle parti e nella causa fondamentale comune del contratto. 

Quando le parti concepiscono l'erogazione periodica dei canoni, non già come canone di locazione, bensì quale corrispettivo rateale del prezzo, si tratterà di un contratto di compravendita con patto di riservato dominio, mentre se il canone costituisce il corrispettivo del godimento fino all’esercizio dell’opzione nel termine concordato, in tal caso si parlerà di locazione con patto di opzione.

Il danno esistenziale entra nel processo amministrativo

Anche il Giudice Amministrativo, con la Sentenza n. 1672/2011accoglie il principio consacrato dalla Corte di Cassazione in materia di danni non patrimoniali. 

Secondo il Consiglio di Stato, anche nell'ambito della giustizia amministrativa, in presenza dei relativi presupposti enunciati dalla Suprema Corte con le note Sentenze del novembre 2008, può essere richiesto ed ottenuto il risarcimento del danno esistenziale, nel quadro della risarcibilità del danno non patrimoniale. 

La risarcibilità di tale categoria di danno è subordinata al ricorso di precise condizioni, quali, alternativamente, la sussistenza di una norma di legge che ne preveda espressamente la risarcibilità ovvero la violazione di un diritto della persona costituzionalmente garantito, a condizione, in tale ultimo caso, che la violazione sia stata grave e che le conseguenze della lesione siano rilevanti. 

Pertanto, conformente a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, deve pacificamente escludersi la risarcibilità di pregiudizi non patrimoniali consistiti in meri disagi o fastidi, non scaturenti da lesioni di diritti garantiti e tutelati dalla Carta fondamentale.

Punita la censura del datore di lavoro ai danni dei dipendenti

I Supremi Giudici cercano di arginare la deleteria prassi dei licenziamenti ritorsivi adottata dai datori di lavoro contro i propri dipendenti che abbiano instaurato cause giudiziarie o abbiano espresso, anche pubblicamente, critiche. 

Infatti, secondo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 6282/2011, costituisce ipotesi di licenziamento ontologicamente disciplinare, adottato in violazione della legge, il recesso datoriale motivato espressamente con riferimento esclusivo ad una vertenza giudiziaria proposta dal lavoratore ed ancora pendente ovvero alla condotta del medesimo prestatore che abbia espressamente formulato critiche nei confronti della parte datoriale alla presenza di organi di stampa.

La sentenza in esame è molto importante, in quanto segna un preciso limite ad un diffuso malcostume quale il moto censorio dei datori di lavoro, che molto spesso puniscono con il licenziamento per giusta causa il dipendente che abbia osato criticarne l'operato o che abbia instaurato un giudizio per la tutela dei propri diritti negati proprio dal datore di lavoro.

Non va pagato il professionista non iscritto negli appositi albi

Secondo la Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. II, 21/03/2011, n. 6402), quando il professionista viola la legge, eseguendo la propria prestazione professionale contra legem ed eccedendo i limiti delle competenze inderogabili fissati dalla legge, il relativo contratto d'opera professionale da lui concluso è nullo ex art. 1418 c.c., in relazione all'art. 2229 c.c. 

Infatti, secondo i Supremi Giudici, per l'esercizio di una professione è necessaria l'iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto configura una nullità assoluta del rapporto fra professionista e cliente, rilevabile anche di ufficio dal Giudice. 

Il contratto d'opera è quindi privo di qualsiasi effetto e nessuna azione può essere riconosciuta al professionista per il pagamento della retribuzione che non può, pertanto, essere pretesa a nessun titolo, neanche ai sensi dell'art. 2041 c.c.

L'Amministrazione finanziaria inchioda il contribuente con i controlli sui conti

Quando, nel processo tributario, l'accertamento effettuato dall'ufficio finanziario si fonda su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente dimostrare che gli elementi risultanti dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso la mera produzione dei dati e degli elementi risultanti dai conti riconducibili al contribuente.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 6906/2011, determina una inversione dell'onere della prova, posto a carico del contribuente, introducendo di fatto una una presunzione iuris tantum, superabile dal contribuente con la prova che le voci dei conti correnti non sono riconducibili ad operazioni imponibili.

martedì 29 marzo 2011

Enti gestori delle autostrade responsabili ex art. 2051 cod. civ.

Nel caso di incidente stradale, l'ente proprietario della strada è responsabile ai sensi e per gli effetti dell'art. 2051 cod. civ. per i danni provocati dai beni soggetti alla sua gestione e manutenzione, quali i guard rail, se questi per la pessima manutenzione determina una situazione di pericolo (Vd. Sentenza 6537/2011).

La Corte di Cassazione consacra quindi un'ipotesi di responsabilità pre cose in custodia (articolo 2051 del codice civile) mutando il precedente orientamento secondo cui era ritenuto applicabile il principio di  responsabilità "del custode" per le strade pubbliche solo in relazione alla loro dimensione.

Secondo il mutato orientamento della Suprema Corte invece l'ente proprietario della strada deve essere in grado di esplicare sulla stessa un «potere di di sorveglianza, modificarne lo stato e di escludere che altri vi apportino modifiche» e la responsabilità sussiste quando il fatto dannoso è dovuto a un'anomalia della strada o degli «strumenti di protezione della stessa».

La responsabilità dell'ente pubblico si configura come un'ipotesi di responsabilità aggravata «salvo che quest'ultimo non dimostri di non aver potuto far nulla per evitare il danno», e la presunzione di colpa che grava su di lui può essere superata solo «quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest'ultima integra il caso fortuito».

La vendetta della suocera

L'ex coniuge o il coniuge assegnatario in godimento della casa familiare di proprietà dei genitori dell'altro coniuge deve restituire l'abitazione allora concessa in comodato gratuito e questo anche se, dopo la separazione, il giudice lo ha assegnato al genitore affidatario nell'interesse della prole (vd. Sent.  4917 del 28 febbraio 2011). Tuttavia la Corte di Cassazione ha consacrato il principio secondo cui l'obbligo di restituzione sorge sono in caso di stato di necessità o bisogno.

La responsabilità della Consob per culpa in vigilando.

La Corte di Cassazione consacra il principio di responsabilità della Consob in caso di inadempimento al proprio obbligo di vigilanza.

Con la sentenza n. 6681/2011 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna della Consob al risarcimento del danno subito da un gruppo di risparmiatori, sul presupposto che la Consob era intervenuta in ritardo a sospenderne l'attività.

Secondo la Suprema Corte vi sarebbe un obbligo della pubblica amministrazione di espletare la propria attività di controllo nel rispetto del principio generale del neminem ledere di cui all'art. 2043 cod. civ.

La legittimazione alla proposizione della querela spetta al Condominio

La Corte di Cassazione,con la Sentenza n. 6197/2011, è tornata ad occuparsi della questione relativa alla legittimazione a proporre la querela per la persecuzione degli autori. 

Secondo la Suprema Corte "laddove vittima del reato sia un soggetto collettivo quale è il condominio è necessaria la querela della totalità dei componenti nella sua espressione istituzionale. Inoltre è da escludere che il singolo condomino possa esercitare una facoltà di questo genere con riferimento alla propria quota millesimale delle parti comuni dell'edificio" (Cass. 18 febbraio 2011 n. 6197).

Se l'assemblea del condominio non dovesse deliberare all'unanimità l'incarico all'amministratore di presentare una querela, il singolo condomino non potrebbe agire pro-quota a tutela del proprio diritto sulle parti comuni.

La Corte di Cassazione innova rispetto a quanto costantemente ribadito addirittura dalle Sezioni Unite.

La conclusione cui è giunta la Suprema Corte lascia alquanto perplessi in quanto non tiene in considerazione il fatto che le parti comuni dell'edificio sono di proprietà pro quota dei singoli condomini, con conseguente compressione del diritto di proprietà e della sua tutela in caso di mancato raggiungimento dell'unanimità.

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